Molto si è discusso dell’ingresso dell’Unione Africana nel G20, celebrato nel corso del vertice del settembre 2023 sotto la presidenza indiana, che non è troppo esagerato immaginare come uno spartiacque del discorso internazionale sull’Africa. Forse è arrivato il momento di rubare un po’ di spazio e tempo ai nostri discorsi autocentrati e provare a porsi una semplice domanda: siamo forse all’inizio di un modo diverso, per l’Africa, di vivere la globalizzazione?
Come sanno gli appassionati di storia, l’Africa è sempre stata al centro dei processi di internazionalizzazione, e principalmente per due motivi: la sua posizione nel globo e la sua straordinaria ricchezza di materie prime.
In epoca antica l’oro della Nubia rese celebri gli egiziani. In epoca moderna, proseguendo una tradizione che risaliva anch’essa all’antichità, il commercio di schiavi africani rese ricchi gli europei, finché non arrivarono a vergognarsene. Il piccolo Belgio divenne grande col rame del Congo. Poi, quando arrivò l’epoca del petrolio, si scoprì che l’Africa ne era ricchissima, e oggi che tutto il mondo scopre la fame di minerali strategici per la transizione energetica, ci accorgiamo che anche di quelli l’Africa è piena. Insomma, più che un continente una cornucopia.
La storia dell’Africa perciò è una storia di sfruttamenti e malversazioni e violenza, che gli stessi africani, per complicità, insipienza o semplice avidità, hanno consumato molte volte. Lo fanno ancora adesso. Tutti noi siamo cresciuti orecchiando di una qualche guerra africana o di un colpo di stato. Esistono persino interessanti statistiche.
E anche questa estate ci ha regalato un paio di sorprese, in Niger e Gabon, dove si stanno consumando avvicendamenti al poterei dei quali è difficile capire ragioni e conseguenze, ma che saranno sicuramente utili da osservare.
Osservare per capire, significa innanzitutto studiare l’Africa, che è un universo del quale la gran parte di noi sa poco o nulla. E ammetterlo è già un buon modo per superare una limitazione di vedute che è una conseguenza anch’essa, e fra le più devastanti, della storia.
E’ stato Henri Pirenne il primo a teorizzare la profonda frattura fra Europa e Africa, tutta interna al Mare Nostrum romano, all’epoca di Maometto e dell’espansione islamica, che spezzò l’unità millenaria del Mediterraneo allontanandoci spiritualmente, e quindi culturalmente, dall’Africa, fino ad allora parte indissolubile della cultura greco-romana e della sua eredità.
Quella frattura non si è mai più ricomposta. E l’ignoranza media di noi europei nei confronti dell’Africa è una chiara evidenza di questa rottura, che nei secoli è stata colmata semplicemente trasformando l’Africa in una preda. Per cui celebriamo il paradosso di sapere tutto ciò che accade negli Stati Uniti, nostra patria putativa, e molto poco, al di fuori di pochi circoli, di quello che sta accadendo in Africa.
Il che dà un enorme vantaggio competitivo ad altre potenze, con l’occhio più lungo del nostro, come la Cina, che invece sull’Africa sta costruendo un solido punto d’appoggio per la sua internazionalizzazione. Per le materie prime, ovviamente. Ma non solo: la Cina sta sviluppando un approccio molto articolato per agganciarsi all’Africa, profittando anche della disattenzione di noi occidentali, che, rinchiusi in noi stessi, dimentichiamo quanto la nostra storia, ma anche il nostro destino, abbia a che fare con l’Africa. L’Europa in particolare, anche per la semplice ragione che ci si affaccia.
Una volta che il buon senso e il semplice ricordare abbiano risvegliato in noi l’interesse per l’Africa, serve ovviamente trasformare questo interesse in uno strumento, raccogliendo informazioni per sviluppare una ricerca che si incarichi di verificare o falsificare un’ipotesi di studio. Quella, vale a dire, che l’Africa oggi sia la nuova frontiera dello sviluppo della globalizzazione. Che sia il Far West del XXI secolo, potremmo dire con una suggestione. Che possa divenire per l’Occidente ciò che per l’Europa furono gli Stati Uniti nel XVIII, XIX e XX secolo: uno straordinario attivatore di progresso, non solo economico ovviamente.
L’idea che questa nuova “frontiera”, che percepiamo come instabile, disordinata o peggio, possa essere un volano del progresso globale farà sorridere alcuni, convinti che il futuro dell’Africa possa necessariamente somigliare solo al proprio passato. Che quindi questo enorme continente entrerà nel Grande Gioco solo come preda e nient’altro. Una visione che sembra essere confermata dalle politiche che le grandi potenze stanno concertando per assicurarsi influenza nel continente, ma forse superata dalla storia. L’Africa, infatti, potrebbe celare un potenziale sorprendente, del quale la sua demografia rigogliosa è una manifestazione, per le nostre società anchilosate. Solo chi coltiva il caos può generare una stella danzante, ha scritto Nietzsche.
Sul caos africano ci sono pochi dubbi, ma va subito precisato che l’Africa è molto variegata al suo interno, e che a fronte di Paesi in grave difficoltà ci stanno alcune eccellenze, per gli standard africani, di cui si parla pochissimo. L’Africa raccoglie oltre 50 Stati molto diversi fra loro, un’altra somiglianza con le celebri stelle della federazione statunitense, e solo nell’ultimo mezzo secolo ha iniziato a percepirsi come entità politica.
L’Unione Africana, erede dell’Organizzazione dell’unità africana degli anni ‘60, è nata all’inizio del XXI secolo. Dopo vent’anni è diventata la seconda unione regionale, dopo l’UE, ad aderire al G20. Un tempo così rapido dovrebbe accendere molte curiosità, se non un autentico interesse. La stella africana potrebbe aver già cominciato la sua danza.
Il resto del mondo tuttavia, almeno finora, non sembra crederci troppo. Ma chi per mestiere prova a indovinare il futuro, già da tempo produce interessanti analisi su quanto l’internazionalizzazione dell’Africa, non più come preda ma da protagonista, potrebbe giovare sia all’Africa stessa, sia al mondo intero. Rimane da capire a che punto siamo.
Uno degli indicatori della misura della fiducia verso un paese sono ovviamente i prestiti che riceve. I prestiti possono essere destinati agli investimenti produttivi, quelli che la contabilità della bilancia dei pagamenti chiama investimenti diretti esteri (Foreign direct investments, FDIs), oppure possono essere investimenti di portafoglio (Portfolio investments). Poi ci sono altre forme di prestito, ovviamente. I sussidi, ad esempio. Ma limitiamoci agli FDI.
Nel luglio scorso l’UNCTAD, agenzia delle Nazioni Unite, ha diffuso l’ultimo World Investment Report che rileva una notevole perdita di investimenti diretti per l’Africa nel 2022 rispetto all’anno precedente: un calo del 44% per un flusso totale di 45 miliardi di dollari.
Certo non una buona notizia per il continente. Che però va osservata in un arco di tempo più lungo per capire se esista un trend. Proviamo a guardare questi flussi nell’ultimo trentennio.
Come si può osservare, la linea degli investimenti diretti internazionali verso l’Africa è praticamente piatta, con un incremento appena osservabile alla metà degli anni Dieci, malgrado la curva degli investimenti diretti globali, seppur con ampi saliscendi, abbia fatto notevoli progressi.
Come dato generale, è utile ricordare che gli investitori europei e non quelli cinesi rimangono, per gli stock, di gran lunga, i maggiori detentori di FDI in Africa, guidati da Regno Unito (60 miliardi di dollari), Francia (54 miliardi di dollari) e Paesi Bassi (54 miliardi di dollari). I vecchi colonialisti, insomma, tengono in piedi le loro dependance, ma non si sprecano troppo. Per dare un’idea di dove vadano i flussi corposi di FDI internazionali, usiamo lo stesso grafico, inserendo l’Asia.
Ecco una sinossi della storia della globalizzazione delle ultime decadi: la linea gialla racconta dell’ingresso dell’Asia (della Cina in larga parte) nel Grande Gioco. Ancora nei primi anni Venti del XXI secolo l’Asia intercetta quasi la metà dello stock di FDI globali. Un’altra regione che segue da lontano è il Sud America.
Molti si chiederanno dove va la gran parte di queste risorse globali che non vanno né in Africa, né in Asia né nell’America meridionale: la risposta è semplice: vanno dove rendono e sono più al sicuro. Quindi negli USA e in Europa, che investono molto vicendevolmente.
La morale di questa storia è che i Paesi ricchi non si fidano (ancora) dell’Africa per i loro investimenti diretti. E questo spiega perché, nel tempo, siano subentrati altri soggetti, seppure con forme diverse di prestiti. Tipicamente, quelli per le infrastrutture. In questo, i cinesi hanno surclassato gli occidentali.
Ed ecco un altro capitolo della nostra storia breve della globalizzazione dell’ultimo trentennio: mentre l’Occidente investiva in Asia, delocalizzando, la Cina utilizzava il frutto di quegli investimenti per fare la stessa cosa in Africa, che invece l’Occidente, assai corto di vedute, abbandonava in sostanza al suo destino, salvo sortite occasionali.
Questa la storia, in breve, fin qui. Non vuol dire che non cambierà, ma bisogna essere consapevoli che ogni storia porta con sé un effetto di trascinamento nella forma di consuetudini e varie pigrizie mentali che richiedono tempo per essere superate. Un modo per affrettare questo processo è iniziare a ragionare sui motivi per cui sarebbe utile farlo.
Nell’agosto scorso, quindi un mese dopo la pubblicazione del rapporto sugli investimenti globali, sempre l’UNCTAD ha pubblicato un altro studio molto interessante, a cominciare dal titolo: The Potential of Africa to Capture Technology-Intensive Global Supply Chains.
L’analisi parte da una semplice considerazione: il mondo sta attraversando un momento di riorganizzazione delle proprie catene di fornitura a causa dei noti shock. Chi viene interconnesso in queste infrastrutture gode di evidenti benefici, e gli autori sono convinti che questo sia il momento per l’Africa di fare il salto di qualità. Diventare l’Asia del XXI secolo. Approfittando della notevole dotazione di materie prime essenziali per la transizione energetica di cui dispone e del rapido migliorare delle proprie infrastrutture di trasporto, cresciute da quando, sul finire degli anni ‘70, si iniziavano a immaginare i primi grandi corridoi trans-africani. Un articolo recente sul Financial Times “World Bank warns of poor outlook for Asia” dice che il 2024 sarà l’anno peggiore per l’Asia orientale degli ultimi 50 anni, di conseguenza, se non c’è prospettiva di crescita, non ci sono normalmente investimenti, e allora l’Africa diviene la destinazione più probabile, a patto che i governi africani blindino i capitali investiti.
In sostanza, l’Africa dovrebbe puntare a diventare un interlocutore affidabile all’interno delle nuove catene di fornitura che si andranno a delineare. Non solo per le sue risorse minerarie, che sono essenziali per il futuro, ma soprattutto per la sua posizione strategica: a parte la prossimità con l’Europa, l’Africa si trova esattamente nel mezzo fra Atlantico e Pacifico, quindi fra America e Asia. Detto diversamente: sta in posizione centrale. Una posizione unica. Una politica industriale efficace, tuttavia, dovrebbe puntare alla trasformazione dei minerali estratti in semiprodotti, detti anche feedstock, aggiungendo valore, e allungando la filiera fino ai prodotti finiti (batterie elettriche, automobili, elettrodomestici eccetera).
La nuova frontiera, insomma, si avvicina a quella vecchia. Soprattutto, sta faticosamente evolvendo dal ruolo di fornitrice di materie prime. Sta iniziando a pensare da grande. In tal senso vanno interpretati i grandi sforzi che sta compiendo l’Unione Africana per accreditarsi come interlocutore internazionale.
Rimane, comunque, un Far West, e ogni volta che le cronache riportano dei suoi tormenti, il merito di credito dell’idea africana ne viene diminuito. Ma proviamo a guardarla da un altro punto vista: non è stato proprio quello uno degli elementi che hanno contribuito al boom statunitense del XIX secolo? E che dire del Far West cinese della seconda metà del XX secolo? E tralasciamo i vari Far West che hanno interessato l’Europa fra il XV e il XVIII secolo. Per dirla con Marx, forse l’Africa adesso sta conoscendo la sua accumulazione originaria, visto che fino ad ora ha accumulato per chi l’ha depredata. E in questo selvaggio svolgersi di un’economia e di una società che stanno cercando di svilupparsi, può esserci ampio spazio per lasciar correre gli animal spirit che da noi si sono estinti per incipiente (e ormai anche incapiente) sazietà.
Quel che potrebbe, anzi dovrebbe essere fatto dall’Europa, è incoraggiare il processo, condividendo con gli attori interessati in Africa le migliori intelligenze ed esperienze, per evitare di ripetere gli errori che un Far West inevitabilmente induce. Per garantire un’uscita dalla povertà che non corrisponda però alla miseria di un’esistenza insicura e infelice.
Non si tratta quindi di un problema semplicemente economico, ma squisitamente istituzionale, quindi politico. L’Africa, in questo somigliando molto all’Europa, avrebbe molto da guadagnare a percepirsi come unità, a parlare con una voce sola, a diventare davvero un mercato unico, magari con un esercito in comune e una banca centrale come teorizzava con spirito visionario il presidente del Ghana, Kwame Nkrumah, negli anni Sessanta.
Il radicalismo rivoluzionario di quel tempo, che voleva rendere indipendente il “terzo mondo” dalla politica dei due blocchi, non è così diverso da quello dei padri fondatori degli Stati Uniti che volevano emanciparsi dalla madrepatria. E l’UE, che è in fase avanzata nel suo processo di integrazione, dovrebbe essere un interlocutore di primo livello per l’Unione Africana, che di questa emancipazione potrebbe (dovrebbe) essere lo strumento.
In attesa di capire se il Far West africano accompagnerà la nuova globalizzazione che sta crescendo sotto i nostri occhi, possiamo solo tracciare alcuni contorni di quelle che potrebbero essere le sue linee di forza, partendo magari da quelle di debolezza. Quanto a queste ultime, il vincolo più evidente, a parte la complessità dei contesti politici in diversi paesi, è la quantità e la qualità del capitale, fisico e umano, disponibile in Africa. Quindi, per semplificare, infrastrutture e capacità.
Il primo problema per molti paesi africani è di non avere una capacità logistica paragonabile a quella di altri paesi emergenti. Anche per questo diverse agenzie africane hanno sviluppato il Programme for Infrastructure Development in Africa (PIDA) che si propone un piano di lungo periodo, fino al 2040, per dotare il continente di corridoi efficienti di trasporto e delle necessarie infrastrutture di contorno. Nell’ultimo rapporto che riepiloga un decennio di politiche, pubblicato nel giugno scorso, si possono vedere alcuni degli obiettivi già raggiunti.
Ma poiché si tratta di un processo di lungo periodo, è inevitabile osservarlo partendo anche dalle risorse di cui dispone l’Africa, che non sono solo i minerali e le materie prime di cui è ricca, ma innanzitutto le persone. Si stima che l’Africa avrà due miliardi e mezzo di abitanti nel 2050, un quarto della popolazione mondiale. Si tratta di una popolazione molto giovane: nativi digitali, con familiarità già acquisita con le tecnologie.
Nel 2019, secondo i dati del Global System for Mobile Association in Africa erano attivi 618 distretti tecnologici, a fronte dei 442 osservati fra il 2016 e il 2018. Si tratta di ecosistemi in forte sviluppo, che favoriscono la nascita di una imprenditorialità diffusa e sono capaci di attrarre le grandi compagnie hi-tech internazionali e le loro catene di fornitura. L’Africa potrebbe passare direttamente al 4.0 saltando un paio di generazioni di sviluppo tecnologico.
In alcuni paesi africani, ad esempio, i pagamenti tramite telefono mobile, da parte di persone non dotate di conto corrente bancario, sono già molto diffusi. Su questo fronte è utile ricordare ad esempio l’accordo fra Google e la Banca Africana di Sviluppo (African Development Bank, ADB) per la promozione della trasformazione digitale, siglato durante la recente Global Africa Business Initiative all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Di Google in Africa si ricorda anche l’investimento nel cavo sottomarino Equiano che si propone di collegare l’Africa occidentale con l’Europa.
Un altro asset che si sta lentamente sviluppando, destinato a valorizzare la straordinaria crescita demografica africana, è l’area africana di libero scambio (African Continental Free Trade Area, AfCFTA). Un progetto molto ambizioso messo alla base dell’Agenda 2063 per l’Africa, che già oggi può indicare alcuni importanti risultati.
E’ chiaro che un continente ricco di risorse primarie, collegato da una rete infrastrutturale ben congegnata, con un’infrastruttura economica integrata e una popolazione giovane, inizia a diventare una prospettiva interessante per i grandi investitori. Se a ciò si aggiunge l’ampia disponibilità di minerali utili alla transizione energetica e la disponibilità di fonti rinnovabili, il quadro inizia a diventare roseo.
Il continente potrebbe offrire diversi vantaggi per industrie strategiche come quella dell’automotive, già fiorente in alcuni Stati africani, degli apparati mobili, dei pannelli solari e anche dei prodotti farmaceutici e dei dispositivi medici. Questo ovviamente senza considerare gli sviluppi del settore minerario.
Se l’Africa riuscirà anche a irrobustire il suo quadro istituzionale, creando quindi fiducia negli investitori, nulla vieta possa spostare verso di sé le traiettorie delle catene di fornitura, sempre molto sensibili ai costi variabili e solitamente ben disposte a investire su quelli fissi.
Ciò significa che la debolezza infrastrutturale è uno dei peggiori nemici delle potenzialità africane. Per fare un esempio, ancora nel 2018 l’Africa aveva un indice di performance logistica (World Bank logistic performance index) di 2,46 (scala da 1 a 5) rispetto a una media globale di 2,87. Classico indicatore che orienta le decisioni di una multinazionale quando si tratta di scegliere la propria geografia produttiva. Un altro esempio: ci sono meno di 70 porti che operano regolarmente sulle coste africane, molti dei quali dotati di scarsa tecnologia e quindi anti-economici.
L’Africa di oggi, insomma, è ancora lontana da quella che potrebbe essere domani, ma il fatto stesso che alcune delle sue componenti politiche abbiano messo a fuoco alcune priorità e impostato il lavoro per realizzarle fa capire che il cammino può essere percorso.
L’Africa non vuole più essere un Far West. Il fatto che ancora venga percepita come tale è il suo problema. Il fatto che ancora in qualche modo lo sia, la sua migliore opportunità. Purché gli africani facciano il lavoro dei pionieri. E noi con loro.
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https://www.afdb.org/en/topics-and-sectors/initiatives-partnerships/programme-for-infrastructure-development-in-africa-pida
https://www.nepad.org/
https://auafcfta.org/
https://gabi.unglobalcompact.org/UnstoppableAfrica2023
https://visitors-centre.jrc.ec.europa.eu/en/media/leaflets/strategic-corridors-improve-europe-africa-connectivity
https://jeancomaroff.com/essays/theory-from-the-south-or-reading-the-global-order-from-the-antipodes/
http://en.reingex.com/African-Corridors.shtml
https://ecdpm.org/https://unctad.org/news/foreign-investment-least-developed-countries-fell-16-2022
https://unctad.org/topic/investment/world-investment-report
https://unctad.org/data-visualization/global-foreign-direct-investment-flows-over-last-30-years