Il micidiale attacco sferrato il 14 settembre alle installazioni petrolifere di Saudi Aramco (Abqaiq e Khurais) rischia di rimanere avvolto da un’aura di incertezza. Questo è il vantaggio strategico degli attacchi asimmetrici (ovvero che utilizzano mezzi non convenzionali) ed era già accaduto con le petroliere sabotate a est dello stretto di Hormuz nei mesi scorsi.
Non vi sono dubbi che i droni e i missili cruise che hanno incendiato gli impianti situati nella regione orientale dell’Arabia Saudita siano riconducibili all’Iran e al suo network transnazionale di milizie sciite. In questo, orbitano anche gli huthi dello Yemen, che hanno rivendicato l’attentato; ma ne fanno parte anche gli Hashd al Shaabi dell’Iraq, che geograficamente operano più vicino agli impianti. In effetti, l’identità e le coordinate geografiche di coloro che hanno condotto materialmente l’attacco non sono ancora accertabili.
In un contesto ancora fosco, è però possibile individuare le dinamiche più significative che emergono dall’ennesimo episodio di tensione nel Golfo.
Iran contro Arabia Saudita: “petrolio per petrolio”
Il cosiddetto oro nero rimane un elemento di assoluto valore strategico, a dispetto della rivoluzione dello shale oil/gas e della corsa alle energie rinnovabili: in Medio Oriente, il petrolio è inoltre uno strumento di confronto geopolitico. Infatti, gli attacchi a Saudi Aramco rientrano in una logica, a somma zero, sintetizzabile in “petrolio per petrolio”: l’impossibilità per l’Iran di esportare greggio, a causa della decertificazione dell’accordo nucleare, del ripristino e poi dell’inasprimento delle sanzioni USA dal 2017, viene simbolicamente compensata dal danneggiamento, seppur temporaneo, delle capacità produttive e di export del suo principale rivale, l’Arabia Saudita, con implicazioni per il mercato energetico mondiale.
Gli huthi e l’”internazionale sciita”
Il coordinamento, propagandistico e operativo, fra l’Iran e le milizie sciite attive in tutto il Medio Oriente, huthi compresi, è in crescita. Gli huthi, che hanno rivendicato l’azione del 14 settembre, hanno i loro interessi in Yemen e non sono “creature politiche” forgiate da Teheran per esportare la rivoluzione islamica di stampo khomeinista: si tratta di un movimento-milizia nato negli anni Ottanta e fondato da Husayn Al Huthi (che dà il nome al gruppo) per sostenere l’autonomia delle terre del nord yemenita dall’oppressione politica e religiosa del governo centrale, nonché della confinante Arabia Saudita.
Quindi, nonostante gli huthi non possano essere catalogati tra i proxy di Teheran, stanno però facendo di tutto per intestarsi la “paternità” dell’attacco. Anche se l’azione militare è troppo precisa e sofisticata se paragonata a quelle eseguite fin qui dagli huthi, l’attacco è stato da loro rivendicato già due volte (ma senza offrire prove), lasciando comunque intendere un possibile coordinamento con l’Iran e altri attori armati non-statuali.
C’è un precedente: il 14 maggio scorso, sette droni colpirono la East-West pipeline/Petroline, l’infrastruttura che trasporta il petrolio saudita dai giacimenti dell’est (Golfo) ai terminal dell’ovest (Mar Rosso). Gli huthi rivendicarono l’azione: gli Stati Uniti dichiararono poi che i droni provenivano dal sud dell’Iraq, quindi dalle milizie sciite irachene filo-Iran, non dallo Yemen.
Come Riyad ha “regalato” gli insorti a Teheran
L’Arabia Saudita bombarda lo Yemen dal 2015, dopo che gli huthi hanno preso con la forza la capitale Sanaa, costringendo il governo transitorio (creato a seguito della rivolta popolare del 2011 e delle successive dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh), filo-saudita, a riparare ad Aden. Oltre a non aver ripristinato i precedenti equilibri strategici, l’intervento militare saudita ha generato un vero effetto boomerang per Riyad. In primo luogo, i sauditi hanno da subito escluso la “carta politica” per giocare quella militare e settaria, descrivendo gli huthi come attori per procura dell’Iran e accentuandone la connotazione sciita. Infatti, il progressivo avvicinamento degli insorti sciiti all’Iran è avvenuto solo dopo l’inizio del conflitto: così facendo, gli huthi hanno migliorato il loro livello di warfare, acquisendo armamenti e legittimità esterna.
L’evoluzione balistica degli huthi ne è un esempio: nel 2015, gli insorti disponevano dell’arsenale dell’esercito regolare yemenita (missili Scud compresi) grazie all’alleanza di convenienza con l’ex presidente Saleh. Oggi invece impiegano droni, missili di più lungo raggio e di fabbricazione iraniana (come il Borkan), assemblati e in parte “made in Yemen” con l’aiuto di esperti dei pasdaran iraniani e di Hezbollah. Anche gli attacchi degli huthi sul territorio saudita (con obiettivo le infrastrutture civili come gli aeroporti e le installazioni petrolifere) sono cominciati dopo che Riyad ha intrapreso l’intervento militare, che ha dunque peggiorato la sicurezza nazionale saudita.
Adesso, gli insorti yemeniti stanno sfruttando l’escalation fra sauditi e iraniani per fini di politica interna: rivendicare gli attacchi contro le installazioni petrolifere è una strategia per mostrarsi parte dell’orbita iraniana e contare di più nel negoziato interno, costringendo l’Arabia Saudita a scendere a patti. Forse, solo gli Stati Uniti possono impedire che la strategia politica degli huthi si saldi con quella dell’Iran, facendo leva sulle contraddizioni interne di un movimento in cui l’ala pragmatica (che di fatto governa la capitale Sanaa) convive con la leadership – ostile al compromesso e ancora di stampo familiare – basata nella regione d’origine di Saada. In questo senso, l’annuncio del 5 settembre scorso, da parte statunitense, dell’avvio di colloqui con gli insorti sciiti per risolvere il conflitto yemenita sembra davvero essere l’ultima chiamata prima che l’alleanza fra huthi e Iran diventi una scelta strutturale per il movimento-milizia.
Il ricompattamento fra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti
L’attacco di metà settembre contro Saudi Aramco ha contribuito a congelare le recenti divergenze geopolitiche fra sauditi ed emiratini: gli EAU hanno dichiarato che la sicurezza di Emirati e Arabia è unita e indivisibile. Negli ultimi mesi, Abu Dhabi si era invece distinta per una serie di scelte regionali in contrasto con Riyad, volte a ribadire il suo ruolo di media potenza regionale assertiva nonché di hub commerciale-marittimo: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche ed economiche con la Siria di Bashar al-Assad, il parziale ritiro militare dallo Yemen (specie dalle aree occidentali in cui i sauditi combattono, dal cielo, gli huthi), persino un incontro con la Guardia costiera iraniana. Abu Dhabi non ha mai accusato apertamente l’Iran degli attacchi e dei sabotaggi alle petroliere, avvenuti anche al largo delle sue coste: una tattica per proteggere l’immagine di stabilità degli EAU.
Il culmine della tensione fra i due alleati è stato però raggiunto ad agosto nello Yemen: le rivalità nel fronte anti-huthi sono sfociate in combattimenti aperti, ad Aden e in alcune regioni del sud, tra i filo-governativi appoggiati dall’Arabia Saudita e i secessionisti meridionali sostenuti dagli EAU. La presenza di una minaccia esterna imminente, simboleggiata dagli attacchi a Abqaiq e Khurais, arriva però a ridimensionare, per ora, le politiche competitive dei due alleati.
La vulnerabilità delle infrastrutture strategiche di Riyad
Ormai è chiaro: i costosi sistemi di difesa anti-missilistici del regno saudita (i missili Patriot) non garantiscono l’intercettazione di droni e missili cruise che viaggiano insidiosamente sotto il livello dei radar. E la Russia già cerca di avvantaggiarsene proponendo ai sauditi gli S-400 di sua produzione, che invece captano i cruise. La protezione delle infrastrutture civili sarà una delle sfide del futuro per l’Arabia Saudita: non solo le installazioni energetiche, ma anche i porti, gli aeroporti e le nuove città che sono al centro dell’ambizioso programma di rinnovamento noto come “Vision 2030”. Su questo tema tecnico ma dal respiro strategico, potrebbe esserci un ruolo per l’Unione Europea, in termini di know how e addestramento.
Nonostante relazioni a tratti nervose (sul caso Khashoggi, sui bombardamenti in Yemen), la sicurezza di Riyad e delle monarchie vicine è un interesse europeo, per ragioni economiche e di stabilità regionale.
Intanto però l’Arabia Saudita si scopre più vulnerabile di quanto credesse e ciò accade in una fase storica di profonda trasformazione interna. Il principe ereditario Mohammed bin Salman Al Saud, non ancora re, non può trasmettere, dentro e fuori dal regno, un’immagine di debolezza, con i sauditi accerchiati ai confini (Yemen, Iraq) e oggetto di attacchi aerei e marittimi. Al contempo, non può permettersi una costosissima e imprevedibile guerra aperta con Teheran, specie con un presidente americano come Donald Trump, riluttante verso gli impegni militari e, per di più, in campagna elettorale per ottenere un secondo mandato nel 2020.
Ma la lista delle opzioni possibili, per sauditi statunitensi e iraniani, diventa, dopo ogni missile o sabotaggio navale, sempre più corta.