L’apertura di un vero fronte militare lungo il confine tra Siria e Turchia segna un possibile punto di svolta nella crisi siriana: è ora possibile (anche se tutt’altro che certo) un coinvolgimento diretto di alcuni paesi occidentali nel conflitto. In particolare, la NATO può essere formalmente attivata a difesa della sicurezza di un paese alleato – la Turchia appunto – e ciò aprirebbe la strada anche ad eventuali operazioni, su vasta scala, con la partecipazione americana. È chiaro che un simile scenario cambierebbe radicalmente la natura stessa del conflitto in corso sul territorio siriano, e in qualche modo consentirebbe di aggirare il blocco rappresentato dal veto russo e cinese nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Il Consiglio Atlantico ha ufficialmente dichiarato che i colpi di artiglieria delle forze siriane caduti in territorio turco sono “atti aggressivi” che pongono un “pericolo chiaro e immediato per la sicurezza di uno degli Alleati”. La base per ulteriori decisioni alleate è stata dunque posta già poche ore dopo l’episodio del 3 ottobre, indurendo il tono della dichiarazione fatta a seguito dell’abbattimento di un aereo turco lo scorso 26 giugno. Per ora la NATO sta reagendo soltanto nell’ambito dell’Art. 4 del suo Trattato istitutivo – che prevede consultazioni in caso di minacce subite da uno dei paesi-membri – ma il passo è breve per fare ricorso all’Art. 5, cioè la clausola di solidarietà politica che può portare all’attivazione di tutti i meccanismi di “difesa integrata”.
Una volta che alla NATO fosse conferito l’incarico di gestire una forma di intervento militare, questo potrebbe avere un duplice obiettivo: la tutela della sicurezza turca da un lato, e la protezione dei civili almeno in alcune “zone protette”. La città di Aleppo – la più grande della Siria, teatro di alcuni dei combattimenti più duri tra le forze governative e quelle di opposizione – dista peraltro meno di 50 km dal confine turco sia verso nord che verso ovest; sebbene gli scontri turco-siriani siano avvenuti più ad Est, la situazione di questa zona nevralgica del paese sarebbe comunque certamente influenzata da un ruolo attivo della NATO lungo la frontiera.
Il premier turco Erdogan, indebolito internamente dalla recrudescenza degli scontri con i curdi e un PKK rafforzato (in parte proprio grazie al sostegno di Assad), spinge da tempo per la creazione di zone cuscinetto lungo alcuni tratti del confine (ben 900 km complessivi) con la Siria: si tratterebbe di un passo da accompagnare con la creazione di no fly zone che, a loro volta, richiedono azione aeree offensive per neutralizzare le forze contraeree dell’esercito siriano. Come si vede, anche un’operazione inizialmente limitata ha in tale contesto il potenziale di trasformarsi in un intervento di ampia portata. Inoltre, nel prendere queste decisioni la NATO sa di entrare nel pieno nella delicatissima questione curda, con le sue molte ramificazioni regionali.
Non è detto che vi sia la volontà politica e la coesione interalleata sufficiente per avviarsi su questa strada – una strada senza dubbio pericolosa, che finora Washington ha evitato in vista sia delle elezioni presidenziali sia del possibile “momento della verità” sul programma nucleare iraniano. Il quadro diplomatico è del resto complicato quasi quanto quello militare, come ci ha ricordato la presa di posizione del governo russo che ha subito intimato alla NATO di non sfruttare l’opportunità per arrogarsi un ruolo diretto in Siria.
In ogni caso, il ritmo delle decisioni è ora più rapido.