All’indomani di un attentato terroristico come quello di Boston, mentre le agenzie investigative fanno il loro lavoro in gran parte riservato, il compito analitico principale è cercare di capire gli obiettivi di chi ha organizzato l’attacco e le possibili reazioni di chi lo ha subito. Nei prossimi giorni verranno naturalmente vagliate dalle autorità statunitensi tutte le piste, internazionali e interne, e il termine “terrorismo” è stato utilizzato dal governo di Washington dopo una primissima fase di prudenza.
Intanto, la promessa fatta dal presidente Obama a poche ore dall’attentato – che i responsabili saranno identificati e portati davanti alla giustizia – ha una certa credibilità, dopo la fine di Bin Laden quasi esattamente due anni fa. Barack Obama può sfruttare insomma un importante capitale politico accumulato nel suo primo mandato sul tema della lotta al terrorismo.
Il contesto internazionale è però delicato per l’amministrazione: le provocazioni nordcoreane sono la priorità più immediata ma ci sono anche le sfide multiple del Medio Oriente, dal conflitto siriano alla questione nucleare iraniana, fino all’ambizione di riattivare i negoziati di pace israelo-palestinesi. Questi dossier richiedono grande freddezza di giudizio e capacità di identificare quali compromessi siano accettabili per gli interessi nazionali americani – ad esempio se e quali concessioni fare alla Cina o alla Russia su un tavolo per ottenerne maggiore collaborazione su un altro. Tuttavia, il clima interno che rischia di prodursi a seguito di un sanguinoso attentato, qualora questo avesse una matrice internazionale, non favorisce le scelte ben ponderate e l’esercizio calcolato della Realpolitik: come sappiamo dai postumi dell’11 settembre 2001, sentirsi in stato di assedio e sotto la spada di Damocle di un altro attacco terroristico può far prevalere le posizioni più bellicose e nazionaliste, a Washington e nel paese. E una società civile disorientata è certamente più suscettibile di cadere nella trappola della semplificazione eccessiva nell’identificare amici e nemici, partner e competitori.
È presumibile che chiunque abbia deciso di far esplodere gli ordigni della maratona di Boston volesse provocare, oltre alle vittime, una reazione del governo americano e forse dell’opinione pubblica nel suo complesso. La sensazione delle prime ore è però che il paese stia cercando di spiegarsi l’accaduto e trovare le tracce dei colpevoli, senza panico e dunque, assai probabilmente, con autocontrollo anche quando arriverà il momento di agire.
Quanto alle ipotesi di terrorismo interno, è stata subito notata la ricorrenza dell’anniversario dell’attentato di Oklahoma City del 1995. Vedremo se si tratta solo di una coincidenza, ma intanto possiamo prevedere che l’opinione pubblica americana avrà un sussulto di forte coesione nazionale di fronte a minacce violente che vengano dal suo stesso interno. C’è forse un rischio che gli apparati di sicurezza e di intelligence vengano dotati di maggiori strumenti e dunque anche di maggiore spazio di manovra a danno delle libertà civili, ma la società americana sembra davvero ben dotata di anticorpi per difendersi da certi eccessi – proprio a seguito dell’esperienza accumulata dal 2001.
Oltre le prime analisi, inevitabilmente incomplete, resta comunque una considerazione etica e per certi versi emotiva: con questo terribile episodio, un ulteriore settore della vita civica, cioè quello dello sport amatoriale, è stato violato. Per un terrorista – e siamo in ogni caso di fronte a terroristi, qualunque sia la loro origine, agenda o affiliazione – ogni manifestazione pubblica che coinvolga molte persone è un potenziale obiettivo; per la stragrande maggioranza delle menti sane, invece, un evento sportivo di massa come la maratona di Boston è uno spazio civico quasi sacro. Uno di quegli spazi in cui perfino i bambini di otto anni possono e devono sentirsi del tutto sicuri. Per questo, auguriamoci certamente che il presidente Obama mantenga la calma che lo ha finora contraddistinto nei momenti decisionali, ma da parte nostra sentiamoci tutti bostoniani e maratoneti.
Questo articolo è stato pubblicato su Il Messaggero il 17 aprile 2013.