In dicembre, la disoccupazione in Europa è rimasta al suo massimo storico di oltre il 12%. Negli Stati Uniti la ripresa accelera, eppure nell’ultimo mese l’economia americana ha creato solo 74.000 posti di lavoro – pochi rispetto al potenziale dell’economia e rispetto ad altri periodi di ripresa post-crisi. Sopratutto, il tasso di partecipazione alla forza lavoro non era mai stato così basso da decenni: 62,8%.
Perché l’espansione dell’economia – che pure è in atto in diverse economie avanzate – non produce posti di lavoro? La domanda non è nuova, anzi: due secoli fa, in Gran Bretagna, i lavoratori tessili ispirati dalla semimitica figura di Ned Ludd reagirono all’introduzione dei telai meccanici (che rendevano superfluo il loro lavoro) distruggendo le macchine. L’automazione della prima rivoluzione industriale diede però torto a chi riteneva che le macchine avrebbero sostituito gli uomini: i nuovi telai avevano bisogno di operai per costruirli e per ripararli, le macchine a vapore avevano bisogno di operai specializzati. Più tardi si vide che un sistema di trasporto basato sul motore a scoppio generava molti più posti di lavoro di quanti se ne perdessero abbandonando le carrozze.
Tra gli economisti, il dibattito teorico era chiuso: il progresso dell’economia, oltre a creare condizioni di vita migliori per tutti, faceva crescere l’occupazione. Una convinzione che neppure la Grande Crisi del 1929 rimise in discussione. Poi arrivò John Maynard Keynes con il suo saggio Prospettive economiche per i nostri nipoti: “Noi siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica – spiegò Keynes. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera”.
Keynes, ottimista, aggiungeva però che “questa è solo una fase di squilibrio transitoria” e che “il problema economico può essere risolto (…) nel giro di un secolo”. Il grande economista inglese scriveva nel 1930, cioè 86 anni fa: perché non abbiamo la sensazione che i problemi siano in via di soluzione ma, al contrario, ci sentiamo sempre più in pericolo?
L’economista americano Jared Bernstein ha intitolato il suo ultimo libro Crunch. Why Do I Feel So Squeezed? La sensazione nasce dal fatto, scrivono gli economisti Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, che siamo entrati nella Second Machine Age, cioè un’epoca in cui la sostituzione di manodopera con macchine accelera il passo, perché si sono diffusi strumenti di impiego universale come il computer. Nel 1964, molto prima di Bill Gates e di Steve Jobs, una commissione di intellettuali e scienziati guidata da Linus Pauling scrisse al presidente Lyndon Johnson che l’applicazione dei computer alla produzione “ha come effetto un sistema di capacità produttiva quasi illimitata, che richiede progressivamente sempre meno lavoro umano”. Mezzo secolo più tardi, le previsioni di Pauling sembra si stiano lentamente avverando, anche se in forma diversa da quanto immaginato allora.
Carl Frey e Michael Osborne, due ricercatori di Oxford, hanno recentemente pubblicato uno studio con una metodologia innovativa per prevedere quali saranno gli impieghi (umani) potenzialmente più suscettibili di eliminazione. La loro tesi è che i lavori di routine saranno facilmente eliminati mentre quelli legati ai servizi alla persona (per esempio gli infermieri) resteranno forzatamente compiti di lavoratori in carne e ossa. Nei prossimi anni, quindi, ci sarà una crescita del lavoro poco qualificato ma insopprimibile, e parallelamente del lavoro ad altissima qualifica, con uno “svuotamento” della classe media. Previsioni che si accordano con quelle del Bureau of Labor Statistics americano sul mercato del lavoro nel 2022.
Quando la tecnologia elimina un tipo di lavoro, chi lo svolgeva rimane disoccupato e, se vuole ritrovare un’occupazione, deve sviluppare nuove capacità. Questo richiede tempo e flessibilità, due fattori che sono spesso ignorati nel dibattito. Quanto tempo ci vuole a un ex operaio di un’acciaieria per diventare, supponiamo, un tecnico informatico? Se ha più di 50 anni le sue probabilità di riuscirci, e di competere con successo con un diciottenne cresciuto in mezzo agli smart phones, sono minime. C’è poi anche un problema di concentrazione della disoccupazione in regioni specifiche: guardando ad un solo esempio tra moltissimi, il Nord della Francia devastato dalla chiusura di miniere e altiforni non ha ancora ritrovato, dopo decenni, un’attività economica paragonabile a quella degli anni Settanta. Queste difficoltà hanno portato la disoccupazione di lungo periodo, e il fenomeno degli “scoraggiati” che neppure cercano un lavoro, a livelli preoccupanti. In Europa ci sono così circa 9 milioni di lavoratori sotto-occupati e altri 9 milioni di lavoratori scoraggiati.
Nonostante tutto, secondo Brynjolfsson e McAfee, “l’automazione e altre forme di progresso tecnologico nell’insieme creano più posti di lavoro di quanti ne distruggano” ma il mercato del lavoro del futuro sarà dominato dalle aziende che riusciranno a trovare le migliori “combinazioni uomo-macchina”. Occorrerà cioè sfruttare le caratteristiche di fantasia, creatività e di flessibilità delle persone, al fine di innovare. I computer sono perfetti per rispondere alle domande (almeno ad alcune) ma non servono per immaginare le nuove domande da cui dipende il progresso. È quindi possibile che, nel lungo periodo, la disoccupazione tecnologica venga riassorbita.
I due economisti sottolineano però che negli ultimi anni c’è stato un forte cambiamento nei mercati del lavoro, che oggi sono diventati mercati “winner-takes-all”, cioè mercati in cui una percentuale elevatissima dei guadagni va al soggetto dominante. I profitti non vengono distribuiti più o meno in proporzione all’efficienza dei vari concorrenti ma vengono “risucchiati” dall’azienda dominante (si pensi ad Amazon per le vendite online) a scapito di tutte le altre. Non solo: all’interno delle aziende i profitti vanno sempre più a remunerare l’amministratore delegato e pochissimi altri dirigenti, a danno del complesso dei dipendenti. Quindi, la frattura sociale e l’aumento della disuguaglianza sembrano essere il prodotto di forze inarrestabili a cui, per il momento, non si sa come opporsi.