Religione, etica e crisi economica

Esiste un rapporto fra il risveglio religioso dell’occidente e l’attuale crisi economica?  Le chiese, cattoliche e protestanti, sembrano pensarlo e intervengono sempre più di frequente nel dibattito, con due messaggi. La crisi è riconducibile alla perdita di valori religiosi nella società occidentale; solo un recupero di questi valori può aiutarci ad uscirne. Molti, anche fra i laici più incalliti, convengono che negli ultimi decenni il capitalismo sia stato pervertito da un’ondata di rapace egoismo individuale.  Non era questo il pensiero dei padri fondatori del pensiero liberale. È  vero che per essi il pane di cui abbiamo bisogno è fornito dal panettiere non per generosità, ma per interesse. Nel pensiero di costoro, che erano spesso “filosofi morali” non necessariamente ispirati dalla religione, nulla autorizza però il panettiere stesso a fornirci pane avariato o a vendercelo a prezzi esorbitanti in condizioni di monopolio. È difficile sostenere che la perdita di valori etici del capitalismo sia legata alla secolarizzazione della società: la crisi ha la sua origine in concetti sviluppati negli Stati Uniti, paese in cui la presenza del cristianesimo militante è ancora molto forte. Ciò non permette però ancora di escludere che la religione possa far parte della soluzione dei problemi.

L’appello delle chiese suscita una certa eco nel formalmente laico potere politico. Non è la prima volta nella storia che un trono vacillante cerca il sostegno dell’altare, dimenticando che questo sostegno comporta sempre un prezzo politico. Il discredito morale dei capitalisti può tra l’altro essere un utile strumento nelle mani di quei politici che vorrebbero ristabilire il controllo dello stato sulla gestione dell’economia. L’appello delle chiese può suscitare un’eco anche nella società? Da sempre situazioni di sofferenza, di paura, di bisogno alimentano negli esseri umani la domanda di trascendenza. Chi non ha i mezzi per comprare più burro può facilmente essere indotto a desiderare almeno “più Dio”. La storia del cristianesimo ci offre numerosi esempi di situazioni di crisi sociale a cui ha corrisposto un rinnovamento religioso.

Il medioevo fu per lunghi periodi un’epoca di povertà, di desolazione, di guerre e di epidemie; anche allora era frequente il messaggio che le sofferenze richiedevano pentimento ed espiazione. Fu anche un’epoca di grande fermento religioso, soprattutto attraverso la fioritura degli ordini monastici. I movimenti di rinnovamento religioso furono quindi un fenomeno interno al cristianesimo, e rivolto in primo luogo ad influenzare la condotta e l’organizzazione della chiesa.  Il messaggio che aveva un particolare riscontro presso masse disperate era quello di un ritorno ai valori originari del cristianesimo: povertà, uguaglianza, rispetto degli umili. La chiesa ufficiale reagiva con sospetto perché ciò la metteva in causa direttamente e creava difficoltà nei rapporti con il potere politico, ma non poteva sottrarsi alla sfida. C’erano anche numerosi effetti indesiderati: quando il desiderio di purezza e di redenzione nasce dalla disperazione può facilmente portare in sé una carica di violenza. I gruppi di “flagellanti” che percorrevano l’Europa durante la peste nera del ‘300 si trasformarono spesso in briganti che non perdevano occasione per massacrare gli ebrei incontrati nel loro passaggio.

Movimenti di risveglio religioso non hanno cessato di riprodursi in epoche successive, caratterizzate da difficoltà economiche o da rapide trasformazioni sociali. Anche la riforma protestante può in parte essere ricondotta ad un bisogno di “ritorno alle origini”; a sua volta essa ha dovuto subire la stessa evoluzione, dall’emergere dei puritani nel ‘600, fino a quello dei quaccheri e degli altri movimenti “non conformisti”. Nel corso dell’800 in America e in alcuni paesi dell’Europa protestante la religione ha avuto un ruolo importante non solo nell’abolizione della schiavitù, ma anche nelle prime critiche del capitalismo: essa ha influenzato sia la nascita dei primi movimenti socialisti, sia le prime politiche sociali dei governi. Su questa scia verso la fine del secolo anche la chiesa cattolica ha elaborato una sua dottrina sociale. Nel mondo protestante la coscienza di una responsabilità individuale nel dovere di solidarietà verso i poveri è inoltre più forte che in quello cattolico, caratterizzato da una chiesa più potente e più ricca a cui questo compito può essere volentieri delegato. D’altro canto, anche senza scomodare Max Weber, è un fatto che il protestantesimo sia  riuscito meglio del cattolicesimo ad integrare alcuni valori del capitalismo liberale.

Gli appelli attuali si situano in un contesto particolare. Non sono più messaggi all’interno di un mondo tutto cristiano, ma si rivolgono a quella parte della società che si è allontanata dalla religione e che le chiese sperano così di riconquistare.  Le chiese devono però sapere che anche in questo caso il movimento può sfuggire di mano e prendere strade non desiderate: dalla crescita di gruppi fondamentalisti al risveglio di teorie “sovversive” come la “teologia della liberazione”. Esse devono oggi affrontare la più pericolosa di tutte le eresie, che non è il militantismo ateo, ma il pensiero critico (sprezzantemente definito relativismo) nato dall’illuminismo europeo. Esso ha una stretta parentela culturale con lo sviluppo del capitalismo e si dichiara non necessariamente incompatibile con la religiosità, ma in realtà ne mina le certezze. Il tentativo di usare un tema politico/sociale come veicolo per un messaggio spirituale può però essere di dubbia efficacia. L’allontanamento dalla religione di buona parte della società occidentale (in tutti i casi europea) è legato a trasformazioni culturali complesse non necessariamente riconducibili a convinzioni e condizioni di carattere economico o sociale.

Nella dottrina delle chiese (non solo di quella cattolica) è facile identificare un messaggio sociale. La sua attuale visibilità è forse legata al declino dell’influenza del pensiero socialista; le chiese hanno in parte occupato uno spazio diventato disponibile. Non è invece facile identificare una concezione di politica economica. Si può ricordare la celebre battuta di Keynes: “In questa situazione ci può aiutare solo Dio; ma questa volta non deve limitarsi a mandare suo figlio perché non è roba da bambini”.  Keynes non ci contava evidentemente molto se, per fortuna di tutti noi, si preoccupò soprattutto di definire validi e laici strumenti di politica economica.  Se si esaminano i vari filoni che alimentano l’attuale dibattito fra economisti è difficile trovarne uno che si può definire specificamente “cristiano”. Discutendo scelte di politica economica, tutti usano gli stessi strumenti dell’analisi empirica e critica. È plausibile quindi prevedere che il capitalismo sarà rifondato all’interno del pensiero che lo ha in primo luogo prodotto.

Il contributo che le chiese possono dare alla concreta soluzione della crisi sarà quindi probabilmente marginale. La loro influenza perchè il capitalismo recuperi valori etici può invece essere importante. Attenzione però alla gerarchia dei messaggi: quando si parla di economia il comandamento più importante è “Non rubare”. Molti truffatori sono anche grandi filantropi. La probità fiscale e la veridicità dei bilanci sono più importanti della filantropia e della parsimonia. Bisogna in tutti i casi distinguere fra regole ed etica. Le prime, almeno nei paesi di democrazia occidentale, sono norme stabilite dai poteri pubblici per conciliare i diritti individuali con l’interesse collettivo. La seconda è un sistema di valori presente nella coscienza di ciascuno; il principio del rispetto della legge ne fa normalmente parte, anche se da Socrate in poi il pensiero occidentale è attraversato da dibattiti sulla possibile contraddizione fra legge e morale. Nel mondo attuale tuttavia, nessuno può più sostenere che i principi morali abbiano un fondamento esclusivamente religioso. Né è possibile limitarsi a constatare una coincidenza fra il messaggio della religione e una “morale naturale”, che secoli di ricerca filosofica ci hanno insegnato essere un obbiettivo tanto desiderabile quanto inafferrabile. Avendo le chiese perso il monopolio delle coscienze, pesa quindi anche sui laici il dovere di fare la loro parte e di imparare nuovamente a parlare “al proprio popolo”.  

 

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