La telefonata fra Barack Obama e David Cameron, l’8 marzo, segue l’intesa raggiunta fra la Casa Bianca e i più importanti partner europei: c’è accordo sulla fine del regime di Gheddafi e sull’intervento in Libia. Anche se resta da decidere tutto il resto, dalle modalità a chi vi parteciperà, fino alla legittimazione ONU.
La difficoltà di trasformare l’intesa USA-Europa in azione nasce dal timore dell’amministrazione Obama di innescare una reazione antioccidentale nelle rivolte arabe in atto. Dopo essere stata presa di sorpresa dalla cacciata di Ben Ali in Tunisia, la Casa Bianca ha affrontato le proteste egiziane con un approccio poi mantenuto anche rispetto a Yemen, Bahrein, Algeria e Libia. I cardini della “dottrina Obama” sulla primavera araba sono tre: niente uso della violenza, rispetto dei diritti umani universali, e sostegno alle istanze di riforma che vengono dalla popolazione. La transizione non violenta in Egitto e la disponibilità del sovrano del Bahrein a procedere verso riforme radicali sono risultati che spingono la Casa Bianca a ritenere che tale approccio stia dando frutti positivi. È stato lo stesso Obama a parlarne la scorsa settimana nella East Room (con a fianco il collega messicano Felipe Calderon), osservando che “fino a questo momento le rivolte arabe non hanno avuto accenti antiamericani” per merito di una strategia che vede gli Stati Uniti “non intromettersi ma agire dall’esterno per favorire il rispetto di principi universali”. Questa nuova formulazione della leadership americana rischierebbe di incrinarsi se Obama autorizzasse in Libia un intervento militare di tipo tradizionale – come quelli avvenuti in Kuwait nel 1991, in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 – oppure se gli Stati Uniti spingessero apertamente per imporre zone di interdizione al volo in maniera simile a quanto avvenne sui cieli di Serbia e Croazia durante la guerra in Bosnia a metà degli anni Novanta. Tuttavia, poiché la crisi libica si presenta con le caratteristiche di un’emergenza umanitaria – a causa dell’uso di armi pesanti da parte delle forze di Gheddafi contro la popolazione civile – Obama si trova nella necessità di intervenire, proprio per dimostrare che se un regime adopera la violenza contro i suoi abitanti è destinato a subire pesanti conseguenze.
Da qui il bisogno di trasformare l’intesa con gli europei sul fatto che “Gheddafi deve andare via” nella formulazione di un “intervento umanitario” con caratteristiche tali da non sollevare proteste antioccidentali nel mondo arabo. È una difficile, ma non impossibile, quadratura del cerchio. Il Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, l’ha abbozzata sottolineando la necessità del “coinvolgimento di Paesi arabi e africani”, mentre Parigi e Londra tentano di porre le basi legali suggerendo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU l’approvazione di una seconda risoluzione che autorizzi esplicitamente l’intervento umanitario in Libia.
In queste ore ferve la diplomazia per reclutare nazioni arabe, musulmane e africane ad un possibile intervento la cui spina dorsale militare sarebbe comunque composta da contingenti militari americani e di altri membri della NATO. Ma se tale corteggiamento si prolunga non è solo per le esitazioni che serpeggiano nella Lega Araba e nell’Unione Africana; è anche perché al Palazzo di Vetro esistono delle discordanze d’azione fra occidentali. A cominciare dal fatto che al Dipartimento di Stato c’è chi ritiene la risoluzione 1970 (del 26 febbraio) già sufficiente per autorizzare un intervento in quanto redatta sulla base del capitolo VII delle Nazioni Unite. È il capitolo della Carta che prevede interventi per il mantenimento della “pace e sicurezza”, proprio come avvenne nel 1999 per legittimare l’intervento della Nato a difesa del Kosovo dalla Federazione ex jugoslava di Slobodan Milosevic. Se Washington ha qualche perplessità su un nuovo voto al Consiglio di Sicurezza è per evitare bracci di ferro con Mosca e Pechino, entrambe dubbiose su una seconda risoluzione e troppo importanti per le strategie di Obama su altri fronti: dallo smantellamento degli armamenti nucleari al ribilanciamento dell’economia globale.
In attesa dell’accordo sulla veste politica dell’intervento, il Pentagono si prepara a sostenerlo qualsiasi sia l’opzione prescelta. Un attacco elettronico potrebbe accecare i centri di comando e controllo del regime libico – come accadde con l’Iraq di Saddam nel 2003 – senza bisogno si muovere navi, aerei e soldati. Oppure potrebbe essere l’aeronautica a imporre “no fly zones” e/o “no drive zones” atte a impedire a Gheddafi di adoperare aerei, elicotteri, tank, blindati e pick up per attaccare i civili. Senza contare lo scenario di zone cuscinetto attorno alle aree tenute dai ribelli, dell’invio di armamenti agli insorti o di un massiccio contingente umanitario – come avvenuto ad Haiti nel 2010 dopo il violento terremoto. Un intervento del genere potrebbe essere guidato da Paesi arabi-africani, con una forte componente europea e la logistica affidata all’esercito americano. Con i piani già pronti e consegnati alla Casa Bianca, il Pentagono aspetta che sia Barack Obama a fargli sapere in quale quadro politico autorizzerà l’intervento.