Libia: un test per l’Italia

Fino a quando il ‘48 arabo ha investito Tunisia ed Egitto, potevamo ancora sperare – come Italia – di fronteggiarne le conseguenze senza troppe difficoltà, ad eccezione che in campo migratorio. Se dovesse crollare la Libia, l’entità del problema cambierebbe completamente di scala per il nostro paese. Tre ragioni spiegano perché. La prima, ben nota, è che abbiamo in gioco interessi economici molto più consistenti, che riguardano le forniture energetiche e la partecipazione libica al capitale sociale di grandi banche e imprese italiane. Non a caso, mentre il prezzo del petrolio torna sopra ai 100 dollari, la Borsa italiana registra già il rischio Libia.

Seconda ragione: a differenza delle rivolte di Tunisia ed Egitto, la sollevazione in Cirenaica ha una forte, storica ed esplicita connotazione religiosa. Come ricordava ieri sul Corriere della Sera Sergio Romano, abbiamo rimosso troppo in fretta il segnale che è venuto dalle manifestazioni di Bengasi del febbraio 2006: una protesta islamica in piena regola contro l’Italia e Gheddafi, accomunati quali oppressori del popolo cirenaico. Il rischio, quindi, è la divisione in due del paese, con il distacco da Tripoli dell’Emirato islamico di Bengasi. Infine, ma certo non in ultimo, ci troveremmo di fronte a una nuova ondata migratoria: il crollo del più longevo e istrionico raìs del deserto, farebbe anche saltare quegli accordi bilaterali con cui abbiamo contenuto i flussi verso le nostre coste. L’Italia ha insomma una posta in gioco vera, nel futuro della Libia. Cosa che imporrebbe una discussione altrettanto vera sul “che fare”.

La tentazione, naturalmente, è quella espressa in questi giorni dal governo Berlusconi: l’astensione da qualunque forma di pressione esplicita, nella convinzione (implicita) che la repressione di Gheddafi funzionerà, tutelando anche gli interessi italiani. Il ritorno al principio della non-interferenza è in appoggio a questa visione, classicamente real-politica.

L’opposizione è critica su questo approccio, data la violenza della repressione interna. Fino a ieri, tuttavia, la politica di apertura a Gheddafi è stata una politica condivisa: nella sostanza, se non nelle forme (discusse semmai dalla Lega, anche nell’ultimo caso saliente: l’aumento del capitale libico in Unicredit). Nell’insieme, l’Italia aveva tacitamente deciso di fare propria la famosa frase attribuita a F.D. Roosevelt su Anastasio Somoza, dittatore del Nicaragua negli anni Trenta: “può darsi che sia un son of a bitch, ma almeno è il nostro son of a bitch”.

Ma quando il son of a bitch comincia ad esserlo davvero, facendo 200 morti alla volta, la politica libica dell’Italia può rimanere la stessa?

La risposta, se vogliamo essere onesti, non è così semplice. Come dimostra (con tutte le differenze di contesto) il dibattito americano sul “che fare” con l’Egitto, la Casa Bianca ha oscillato fra l’idea iniziale di potere ancora salvare Mubarak, l’esigenza di non tradire la speranza in una società più aperta e infine la decisione di appoggiare l’esercito per un cambio ai vertici del regime.  Lasciando al futuro un vero e proprio regime change. L’Italia non ha il peso dell’America, naturalmente; ma Gheddafi sta a Roma come Mubarak stava a Washington – o Ben Ali a Parigi. In altri termini: la longevità di un raìs che l’America avrebbe voluto eliminare alla metà degli anni Ottanta, è anche frutto della relazione speciale con l’Italia.

È una relazione destinata a finire, comunque vadano le cose a Tripoli. Per Roma, combinare interessi economici, controllo dell’immigrazione e principi democratici diventerà un difficile gioco di equilibrio. E non è chiaro se esistano interlocutori alternativi: fino a che punto potrebbe diventarlo Seif, il figlio “riformatore” di Gheddafi,  che si sta giocando fra gli spari la successione?

Di fronte al moltiplicarsi delle violenze, una posizione cinicamente “real-politica” diventa insostenibile. E sbagliata.

Nei giorni scorsi, Francia e Gran Bretagna hanno deciso di interrompere la fornitura a Tripoli di materiali di sicurezza che possano servire alla repressione interna. La Francia ha interessi molto meno rilevanti dei nostri, in Libia. Ma la Gran Bretagna ha interessi importanti. Possiamo almeno prendere una decisione simile, puntando su un approccio europeo? O pensiamo di giocare una partita nazionale?

Rispondere a questa domanda sarebbe già un modo per affrontare in modo serio, non retorico, il primo vero test di politica estera cui l’Italia si trovi di fronte da vari anni a questa parte.  

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