L’Egitto e il rischio della sindrome algerina

Il pendolo egiziano oscilla violentemente, mentre crescono moltissimo i costi umani e i rischi politici. Il pugno di ferro usato dalle forze armate in queste ultime ore è purtroppo il segnale evidente che la prima fase della transizione nel paese è fallita: l’esperimento del dopo-Mubarak ha approfondito le fratture nella società egiziana invece di avviare un graduale percorso di riforme condivise e comunque di convivenza civile. In altre parole, l’apparato dello Stato, il sistema politico e la società civile non hanno trovato un equilibrio che consenta sia di governare (e naturalmente di perseguire anzitutto politiche economiche sensate) sia di rispettare le posizioni delle minoranze (a cominciare dalle minoranze elettorali, che in democrazia sono per loro natura temporanee).

L’esercito ha preso l’iniziativa contro le piazze che chiedevano soprattutto la liberazione del presidente deposto, Mohammed Morsi, rendendo ora probabilmente impossibile una sorta di riconciliazione nazionale che coinvolga l’attuale leadership dei Fratelli musulmani. È possibile che il pendolo della politica egiziana consenta un giorno la formazione di un qualche governo di unità nazionale con il contributo diretto di un partito islamico, ma certo non si tratta di un’opzione imminente né facile da realizzare. Eppure, è questa la strada che andrà seguita, e che avrebbe forse consentito di evitare le gravissime violenze di questi giorni. Avrebbe infatti salvaguardato il concetto stesso del metodo democratico per creare consenso e gestire il dissenso, perfino in presenza di passaggi traumatici come la deposizione del dittatore Mubarak e poi quella del presidente Morsi (eletto democraticamente ma diventato presto il rappresentante di una minoranza di cittadini a causa delle sue scelte di governo).

Ora siamo di fronte a uno scontro esistenziale tra le diverse componenti mobilitate della società egiziana, nessuna delle quali vuole accettare compromessi: non è dunque una competizione politica ma un conflitto civile. In sostanza, i manifestanti pro-Morsi non riconoscono la legittimità stessa dei loro avversari perché questi sono sostenuti da un esercito violento che non risponde all’autorità politica; da parte loro, gli ancora più numerosi egiziani che manifestarono fino alla deposizione di Morsi e del suo governo vedono la Fratellanza musulmana come un corpo estraneo ed eversivo. In altre parole, l’Egitto si sta avvitando in una spirale simile alla “sindrome algerina”, cioè una democrazia zoppa in cui l’unico esito elettorale accettato dalle forze armate è quello che esclude dal potere l’Islam politico. E sappiamo dall’esperienza dell’Algeria che quella strada è comunque sanguinosa oltre che poco propizia allo sviluppo civico ed economico.

D’ora in avanti, moltissimo dipenderà dalla capacità dei movimenti in campo di accettare una nuova fase transitoria gestita dalle forze armate che riporti il paese entro gli argini della convivenza pacifica. Ma anche dalla volontà dei militari di cedere buona parte del potere non abusando della propria forza materiale.

In ogni caso, il peso regionale dell’Egitto, date le sue dimensioni e la sua storia, implica che la vicenda in corso avrà quasi certamente delle conseguenze anche al di fuori dei confini del paese: quasi tutti i paesi a forte maggioranza islamica stanno cercando un modello di Stato e di gestione del potere. Si spiegano anche così i segni, per quanto tardivi, di attivismo internazionale, senza dimenticare che gli Stati Uniti hanno continuato fino ad oggi a sovvenzionare pesantemente le forze armate egiziane.

I tentativi di mediazione internazionale, sia europea che americana – e colpisce il silenzio quasi totale del resto del mondo arabo in questo momento drammatico – sono subito naufragati tra l’oggettivo deterioramento del conflitto civile e la classica tendenza di tutte le parti in causa a strumentalizzare le posizioni dei governi stranieri. Sebbene sia comprensibile la volontà della diplomazia internazionale di evitare un’ulteriore escalation della violenza e dunque di rendersi utile per la ricerca di una via d’uscita, non sembra francamente che nel clima attuale di altissima mobilitazione dell’Egitto sia opportuno inserire un ulteriore fattore di complessità politica e ideologica. Non dimentichiamo che nella percezione di molti egiziani l’Occidente ha sostenuto per decenni Mubarak, per poi attendere lo svolgersi degli eventi fino alla vittoria elettorale dei Fratelli musulmani. Abbiamo, insomma, confidato sempre nella capacità dell’esercito di tenere insieme il paese e puntato sistematicamente a garantire la stabilità più che perseguire le aspirazioni degli egiziani: non è davvero un buon biglietto da visita per presentarsi come mediatori efficaci. Data questa realtà storica, meglio un eccesso di prudenza – vedasi il presidente Obama.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata il 18 agosto sul quotidiano Il Mattino.

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