L’annuncio ufficiale della morte di Osama bin Laden, ucciso in uno scontro a fuoco in Pakistan dalle forze americane (a quanto è dato sapere, senza un previo accordo con Islamabad), ci ricorda quanto gli Stati Uniti siano un paese con una specifica visione del mondo. È un paese che ritiene scontato il diritto a uccidere un individuo che ha fatto ricorso al terrorismo, e che intende esercitare tale diritto ovunque si renda necessario.
Una piccola folla festante si è radunata spontaneamente di fronte alla Casa Bianca e a Times Square per celebrare la morte del terrorista n.1. Opinione pubblica e governo sono dunque, in questo momento, perfettamente allineati: la guerra afgana, con la sua cruciale propaggine pakistana, è stata sempre definita dall’amministrazione Obama come una “guerra giusta”. Da questa impostazione sono logicamente conseguiti una forte escalation dell’impegno militare e un deciso ampliamento geografico delle operazioni anche nel vicino Pakistan. La cattura di bin Laden è stata così rivendicata dal presidente, nella dichiarazione fatta il 1° maggio, come il risultato di una scelta ben precisa: “shortly after taking office, I directed Leon Panetta, the director of the CIA, to make the killing or capture of bin Laden the top priority of our war against al Qaeda, even as we continued our broader efforts to disrupt, dismantle, and defeat his network”.
Oltre al tono fattuale, c’è poi il classico richiamo esplicito all’eccezionalismo: “Let us remember that we can do these things not just because of wealth or power, but because of who we are: one nation, under God, indivisible, with liberty and justice for all”.
In queste ore di straordinaria unità nazionale, è quasi curioso ripensare al Premio Nobel per la pace di cui è stato insignito il presidente Obama pochi mesi fa – in modo francamente poco ortodosso, con una motivazione “alla fiducia”, e di fatto suo malgrado. A onor del vero, nell’accettare il premio il presidente avevo chiarito, con onestà intellettuale e politica, che il proprio ruolo contemplava la possibile decisione di usare la forza in alcune circostanze. Ma rimane il fatto che qualcosa stride nell’ascoltare un messaggio presidenziale che afferma letteralmente “giustizia è fatta”.
Si è detto spesso, correttamente, che l’attentato alle torri gemelle ha lasciato una traccia indelebile nella memoria collettiva: le immagini di un colpo inferto al cuore culturale dell’America, a pochi passi da Wall Street, usando come arma impropria due aerei di linea. Le immagini di questo inizio di maggio 2011 – i festeggiamenti spontanei e la fermezza soddisfatta del presidente – non avranno certo un impatto paragonabile, eppure meritano una riflessione e sono anch’esse emblematiche. Rappresentano visivamente l’eccezione americana: un paese che si unisce attorno alla bandiera e che ritrova il proprio spirito di nazione di fronte a un nemico ben preciso e alla volontà di farsi giustizia. Perché il nemico deve essere punito ed eventualmente eliminato. Ciò è vero anche nell’America di Obama, che in fondo ha cercato di lasciarsi alle spalle certi tratti bellicosi degli anni di G.W. Bush. L’attuale presidente, già lanciato nella corsa per le rielezione, è oggi nuovamente un “Commander in Chief”. E, nonostante l’evidente priorità delle questioni interne ed economiche, potrebbe beneficiarne in vista del 2012.