Le opzioni energetiche nella vicenda russo-ucraina

Quando decise di costruire i due principali gasdotti che attualmente attraversano l’Ucraina, il Soyuz (Unione) e il Btatstvo (Fratellanza), il regime sovietico non aveva certo considerato l’ipotesi di un collasso dell’URSS stessa. Dunque, non si era mai posto il problema della conseguente ridefinizione dei confini, e del frazionamento della struttura produttiva e dei ricavi da essa derivanti tra Mosca ed altri nuovi centri di potere.

In realtà, la contrastata relazione intercorsa tra Russia e Ucraina a partire dai primi anni Duemila è legata in larga misura proprio ai percorsi condotte del gas. L’Ucraina indipendente si è trovata nella condizione di gestire il trasporto di un terzo del gas russo verso l’Europa, e Kiev non ha mai perso occasione per far valere questo fattore geopolitico nei rapporti con Mosca: sia nei confronti di carattere politico che in quelli di carattere personale.

Le cosiddette “guerre del gas” sono state la rappresentazione più evidente del conflitto che ha diviso i due paesi. È innegabile ciò che si è spesso denunciato (sia da parte ucraina che occidentale): Mosca ha interrotto alle volte i rifornimenti di gas verso l’Ucraina. Così facendo ha messo a rischio l’approvvigionamento dell’Europa, visto che circa il 16% del consumo continentale è garantito appunto dalle pipeline che attraversano l’Ucraina. Non a caso, i casi di interruzione si sono verificati d’inverno, quando il fabbisogno europeo è al massimo. Di fatto, per fortuna, le interruzioni sono state episodiche e di breve durata, ben coperte da depositi locali e rifornimenti addizionali. Ma i livelli raggiunti dallo spavento degli europei e dalle speculazioni sui prezzi delle materie prime in quegli stessi periodi sono stati molto elevati.

Non è vero però che, in questa storia di idrocarburi, i russi possano essere definiti i cattivi e gli ucraini le vittime della situazione. Nel caso di democrazie parziali come quella russa e quella ucraina, a contare di più sono sempre stati i gruppi chiusi di potere, come quelli che anche a Kiev si disputano le più alte cariche dello Stato. In Ucraina il settore energetico è infatti appannaggio di circoli imprenditoriali-politici che perseguono innanzitutto i propri interessi. Yulia Tymoshenko, per anni leader di un’opposizione sopravvissuta a ripetuti tentativi di annientamento, in patria non è circondata dall’aura di santità che sembrano disegnarle addosso i giornali occidentali. D’altro canto, l’ultimo presidente (filo-russo) prima dei fatti della Crimea, Viktor Yanukovich, in soli quattro anni di potere è stato in grado di accumulare una fortuna immensa; e ciò non è certo avvenuto grazie al suo fiuto imprenditoriale.

Da questo punto di vista, l’annessione della Crimea ha mutato le coordinate del conflitto russo-ucraino. Il territorio passato alla Russia ricopre un importante ruolo geostrategico: in particolare, è la “piattaforma” dalla quale poter controllare il transito di navi del Mar Nero. Solo in aprile dal porto russo di Novorossijsk sono salpati 620.000 barili di petrolio al giorno. Il Mar Nero è poi al centro di importanti progetti d’interconnessione energetica tra Russia ed Europa, tra cui il gasdotto South Stream (per una capacità annuale superiore ai 60 miliardi di tonnellate). Finora l’accordo con Kiev prevedeva che i russi conservassero una base navale in Crimea, a Sebastopoli. Ciò consentiva di controllare l’area anche grazie all’altro polo navale di importanza strategica: la storica base di Tartus sulla costa mediterranea della Siria. In questo modo, Russia e Ucraina si scambiavano due vantaggi reciproci: Kiev concedeva in uso il porto di Sebastopoli, che facilitava le manovre strategiche di Mosca nella regione. Come ricompensa, otteneva sconti sul gas, e soprattutto molta tolleranza sui ritardi nei pagamenti – ritardi accumulati grazie al disastro dei conti pubblici ucraini.

L’attuale instabilità non ha ancora permesso la rielaborazione di un accordo tra i due paesi, ed è presto per stabilire con certezza cosa succederà nel settore energetico. Alcuni elementi sono però già chiari. Prima di tutto, il potere negoziale dei russi è in realtà limitato. Si teme che possano diversificare le tratte di esportazione dell’Ucraina e “interrompere a comando” il rifornimento di gas, per alzare i prezzi ed esercitare “influenza politica”. In effetti, almeno in un’ottica di lungo periodo, l’Europa può attuare contromisure in grado di rendere inefficace qualsiasi tentativo di “accerchiamento energetico”: si possono costruire gasdotti d’interconnessione interna, così da invalidare qualsiasi tentativo d’interruzione selettiva delle forniture; si possono completare più terminal di “rigassificazione”, per l’importazione di gas su nave da tutto il mondo (includendo eventualmente il gas di scisto proveniente dagli Stati Uniti, tra dieci-quindici anni); si possono sviluppare riserve domestiche e ridurre la dipendenza dalle importazioni.

A tutto questo si unisce una tendenza di fondo: la domanda di gas in Europa è diminuita. Non è solo la crisi economica a spingere in basso i consumi, ma anche l’impatto della produzione rinnovabile installata nell’ultimo decennio. Alcune centrali a gas europee, progettate per funzionare 7-8.000 ore l’anno, stanno peraltro ancora viaggiando a metà della capacità produttiva.

Così, la Russia si trova davanti a una scelta. Può perseguire una strategia orientata al “monopolio”, per controllare meglio prezzi e potere nel settore energetico – ma con il rischio che l’Europa si riorganizzi. O può puntare a consolidare e sviluppare la propria reputazione di “fornitore affidabile”, continuando un rapporto commerciale che è in piedi già dalla seconda metà degli anni Cinquanta.

D’altro canto, Mosca ha guadagnato un maggior margine di manovra, ora che si è “liberata” del problema politico di Kiev: può tornare a pretendere dall’Ucraina prezzi per il gas più vicini a quelli di mercato. Adesso, il compito di sostenere le finanze di Kiev tocca all’Occidente. Se prima l’Ucraina non pagava, era un problema di Mosca; ora che non c’è più da negoziare la presenza a Sebastopoli, e adesso che tutta la Crimea è russa, Mosca non deve più scendere a patti per preservare i propri obiettivi geopolitici. Non bisognerà sorprendersi se, tra pochi mesi, avendo a che fare con le litigiose fazioni politiche di Kiev, l’Europa inizierà a mal sopportare l’Ucraina.

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