Due anni fa Thomas Mann e Norman Ornstein, rispettati osservatori della politica di Washington, hanno scritto un documentatissimo saggio sulla disfunzionalità cronica del Congresso americano odierno. La tesi di fondo è che esso non è più in grado di gestire, o almeno di limitare, la crescente polarizzazione politica: di fronte a partiti che tendono verso gli estremi dello spettro ideologico, anche il sofisticato sistema parlamentare americano s’inceppa. All’epoca qualcuno aveva trovato il titolo di quel saggio un po’ eccessivo: It’s even worse than it looks, ovvero “è anche peggio di quel che sembra”. Negli ultimi due anni, però, la lettura apocalittica di Mann e Ornstein è diventata la vulgata nei circoli politici del Paese, riflessa anche nei sondaggi, secondo cui un misero 13% degli americani approva l’operato del Congresso, mentre il 77% ne ha un’opinione negativa. Un record assoluto per il ramo legislativo del governo. E i prossimi mesi, che conducono alle elezioni di midterm del 4 novembre, non sembrano promettere un significativo cambio di rotta.
Se negli anni scorsi l’incessante animosità dei partiti si è scatenata sulle dispute del fiscal cliff, sullo shutdown dei servizi fondamentali del governo federale, sul tetto del debito pubblico e altre specifiche di bilancio usate come leve vantaggiose per ottenere contropartite politiche, da qui all’autunno la partita si gioca su temi fondamentali per la legacy, ovvero l’eredità, dell’amministrazione Obama. Si va dalla riforma dell’immigrazione, a quella dei sistemi di sorveglianza della National Security Agency (NSA), fino al salario minimo. Queste sono le riforme che il presidente ha promesso per completare quel nation building at home che è la chiave di lettura del suo governo.
Ma le prospettive non sono rosee. Lo speaker della Camera, il Repubblicano John Boehner, ha detto chiaramente che non permetterà che i suoi colleghi deputati votino sulla riforma dell’immigrazione (già approvata dal Senato nel 2013) prima delle elezioni, scelta che è frutto di un evidente calcolo elettorale: il partito è diviso fra un establishment disposto a trattare su questo tema e il Tea Party che lo accusa di alto tradimento della vocazione repubblicana. Nelle primarie di partito condotte fin qui, diversi candidati della corrente più tradizionale del Grand Old Party (GOP) ci hanno già rimesso la poltrona, primo fra tutti il numero due alla Camera, Eric Cantor. Ma se a novembre il GOP vuole consolidare la maggioranza alla Camera e strappare il Senato ai Democratici, non può permettersi di concedere troppo spazio al Tea Party, specialista nell’esprimere candidati intransigenti che sono ottimi per le primarie, in cui votano gli attivisti di partito e quindi i più oltranzisti dal punto di vista ideologico, ma assai deboli alla prova delle elezioni generali. Ai candidati del Tea Party, del resto, basta accusare gli avversari repubblicani di volere l’amnistia per i circa 11 milioni di clandestini che vivono negli Stati Uniti per far ribollire la pancia della base del partito.
Per supplire all’inazione del Congresso, Obama ha già annunciato una serie di provvedimenti di natura esecutiva su questo tema che, al di là dei rappresentanti e dei sostenitori più ideologicamente puri del Tea Party, è effettivamente sentito trasversalmente, basti pensare agli sforzi dei Repubblicani della Florida Jeb Bush e Marco Rubio a favore dell’introduzione di una riforma bipartisan. Anche Luis Gutierrez, il deputato democratico dell’Illinois simbolo della lotta per la riforma dell’immigrazione che non ha risparmiato critiche a Obama, dice ora che “l’azione è l’unico antidoto all’inazione e il presidente si sta muovendo sulle questioni che il Congresso a maggioranza repubblicana si è rifiutato di affrontare”. In tutta probabilità, quindi, il 2014 vedrà alcune iniziative presidenziali sull’immigrazione, ma non una nuova legge.
Per parte sua, l’eventuale riforma della NSA è un tema troppo scottante in chiave elettorale perché si possa ragionevolmente pensare a un cambiamento significativo prima di novembre – specialmente se si considera la rinnovata minaccia del fondamentalismo sunnita in Iraq, che ha di nuovo posto al centro dell’attenzione il tema della sicurezza nazionale.
E per approvare l’incremento del salario minimo federale (come Obama ha promesso più volte agli elettori) i Democratici al Senato non hanno in realtà i sessanta voti necessari. Il leader Harry Reid ha infatti già implicitamente dichiarato persa la battaglia. Rimandate a dopo le elezioni anche le proposte di nuovi sussidi per i disoccupati e la riforma fiscale. Per l’onorevole democratico Eliot Engel, dallo Stato di New York, ci sono “zero possibilità” che entro le midterm il Congresso possa approvare una singola legge per favorire l’occupazione.
Nell’agenda realistica del Congresso rimangono solo le autorizzazioni di spesa per le operazioni ordinarie del governo, l’estensione di una serie di sgravi fiscali già in essere per le piccole imprese, un disegno di legge per riparare le autostrade uscite malconce dall’inverno particolarmente rigido, un dispositivo per proteggere meglio i brevetti, e poco altro. Amaramente ironico, ed emblematico, è il fatto che il disegno di legge su cui i Repubblicani si stanno muovendo con più convinzione è quello che permetterebbe al Congresso di citare in giudizio il presidente per abuso del potere esecutivo. Eccesso in cui il presidente incappa, però, proprio per far fronte alle mancanze del ramo legislativo.