La transizione nordcoreana e il quadro regionale

A circa due mesi dalla morte del dittatore Kim Jong Il e dall’avvento al potere del figlio trentenne Kim Jong Un, è possibile analizzare le prime conseguenze della transizione sugli equilibri strategici dell’Asia Orientale.

Il periodo immediatamente successivo alla morte di Kim Jong Il era quello più temuto da parte delle principali potenze dell’Est Asiatico. Tuttavia, la tenuta del regime ha sgombrato il campo dai due scenari peggiori, ovvero l’implosione dello stato nord coreano e una spiccata aggressività esterna derivante da un processo di consolidamento incerto della nuova leadership. Anche se ad oggi è difficile stabilire se e in che proporzioni la successione sia stata completata e quali siano i nuovi equilibri interni, il regime sembra in grado di continuare a perseguire la “strategia della sopravvivenza” adottata dal Caro Leader negli ultimi anni.[1]

Il programma atomico e balistico costituisce uno strumento irrinunciabile di questa strategia. Nonostante abbia aggravato l’isolamento del paese, la minaccia nucleare ha garantito la sopravvivenza della dinastia dei Kim, evitando finora una vera escalation militare. Inoltre, ha permesso a Pyongyang di ottenere aiuti economici da parte di Cina, Stati Uniti e Giappone.

La capacità del regime di proseguire la “strategia della sopravvivenza” basata sul programma atomico mette in evidenza le differenze di interessi e di priorità da parte delle principali potenze regionali, già emerse durante i Six Party Talks (che coinvolgono, oltre alle due Coree, Cina, Stati Uniti, Giappone, Russia). In questa fase, l’attore che può maggiormente influenzare il comportamento nordcoreano è sicuramente la Cina. Pechino, infatti, oltre ad essere l’unico alleato politico e militare di Pyongyang, fornisce, secondo le stime, il 90% dell’energia, 80% dei beni di consumo e il 45% degli alimenti importati dalla Corea del Nord.

Il principale interesse cinese, coerentemente con la dottrina dello “sviluppo armonioso”, è quello del mantenimento di stabilità lungo i propri confini. Un’implosione del regime nordcoreano comporterebbe una massiccia ondata di profughi e notevole instabilità nella zona. La Corea del Nord rappresenta, inoltre, un fondamentale stato cuscinetto tra il territorio cinese e la Corea del Sud, dove sono dislocati 30.000 soldati americani. Una riunificazione “alla tedesca”, con uno stato unitario alleato degli Stati Uniti, rappresenta un’ipotesi assai temuta da Pechino.

La linea cinese, di conseguenza, è orientata a mantenere in vita il regime, cercando però allo stesso tempo di mantenere un elevato grado di controllo sulla sua condotta.

Pechino negli ultimi anni ha cercato di mitigare gli aspetti più destabilizzanti del comportamento nordcoreano, arrivando a fino a votare a favore delle sanzioni dell’ONU nel 2006 e nel 2009. D’altra parte, data l’assoluta centralità del programma nucleare per Pyongyang, il governo cinese non spingerà per la denuclearizzazione, ma cercherà soltanto di limitare i rischi di un confronto aperto con la comunità internazionale.

Da questa prospettiva, una leadership nordcoreana debole e divisa potrebbe risultare funzionale agli interessi cinesi, permettendo a Pechino di aumentare la propria influenza e di evitare nuovi picchi di tensione come quelli del 1998, 2006 e 2009. Episodi come i test nucleari e missilistici, infatti, producono l’effetto di rafforzare i legami militari tra Washington e i suoi alleati asiatici a detrimento degli interessi cinesi.

Questo approccio, favorevole al mantenimento dello status quo, è in parziale contrasto con gli interessi e le priorità degli Stati Uniti. L’obiettivo principale di Washington, infatti, è il contrasto alla proliferazione delle armi di distruzione di massa e la salvaguardia del regime di non proliferazione. Per il momento l’Amministrazione Obama sta adottando la linea della “pazienza strategica”: Washington pone infatti alcune condizioni per il ritorno al tavolo negoziale, quali l’implementazione dell’accordo del 2005, la ripresa della ispezioni della AIEA e la sospensione dell’arricchimento dell’uranio. L’obiettivo è quello, nelle parole dell’ex-Segretario alla Difesa Robert Gates, di “non comprare lo stesso cavallo per la terza volta”. Nuovi negoziati senza condizioni servirebbero solo a congelare la situazione e favorire gli interessi di Pechino che, non a caso, spinge per la ripresa dei negoziati con la vecchia formula dei Six Party Talks.

La seconda priorità è quella di mantenere il coordinamento strategico con gli alleati, in primo luogo Corea del Sud e Giappone. La questione nordcoreana rappresenta, infatti, un test cruciale per la capacità di Washington di garantire deterrenza estesa e di ribadire la propria leadership nell’Asia Pacifico – il che implica anche un costante sforzo di moderazione della tensione lungo il confine intercoreano.

Quanto a Seul, dopo una fase di indurimento diplomatico – complicato anche da episodi ad alto rischio, come l’attacco subito dalla corvetta sudcoreana –   il presidente Lee Myung-bak si sta spostando su posizioni più concilianti, lanciando segnali di apertura. Tuttavia, durante l’anno elettorale del 2012 (con le elezioni parlamentari ad aprile e quelle presidenziali a dicembre) difficilmente Seul imprimerà una svolta alle sue relazioni con il Nord.

Il Giappone rimane un attore rilevante, anche se meno decisivo rispetto a Cina e Stati Uniti. La politica del governo Noda è coerente con la condotta, fondamentalmente non collaborativa, attuata dai governi precedenti dopo il fallimento della distensione bilaterale sotto la guida di Koizumi.  L’approccio giapponese rimane fortemente condizionato da due fattori. Il primo è la pesante eredità della cosiddetta “abduction politics”: il regime nord coreano si è reso responsabile di numerosi rapimenti di cittadini giapponesi tra gli anni ‘70 e ‘80, usandoli poi come strumento di ricatto politico. Il risentimento popolare generato dalla vicenda ha indotto Tokyo ad adottare un approccio intransigente nei confronti della Corea del Nord, anche contro le richieste dell’alleato americano. Il secondo fattore è che per il governo giapponese la minaccia nordcoreana rappresenta la “scusa perfetta” per proseguire il percorso di “normalizzazione” della propria politica di sicurezza. La condotta di Pyongyang rende accettabili all’opinione pubblica i numerosi passi verso il superamento dell’identità pacifista giapponese, e lo stesso consolidamento dei legami militari con Washington.

In sostanza, le notevoli differenze tra gli interessi e gli obiettivi delle principali potenze coinvolte allontanano la prospettiva della denuclearizzazione della penisola coreana. Nonostante ciò, dopo una fase di consolidamento dei nuovi equilibri interni a Pyongyang, i negoziati saranno probabilmente riavviati. La Cina cercherà di utilizzarli come strumento per congelare la situazione e per accrescere il suo controllo sull’alleato coreano, oltre che per presentarsi come “responisble stakeholder” a livello globale. Washington, a sua volta, non può abbandonare le trattative sul fronte nordcoreano, poiché significherebbe ammettere la debolezza del regime di non proliferazione. Inoltre, ciò potrebbe mettere in qualche modo in dubbio la capacità americana di garantire la sicurezza giapponese e sudcoreana. 

Nel caso di ripresa dei negoziati, il livello di condizionalità delle trattative rappresenterà un importante segnale: in caso di negoziati con forti precondizioni si registrerà una vittoria diplomatica americana. Nel caso contrario, la situazione tenderà verso un congelamento del problema, ovvero in modo più favorevole agli interessi cinesi.

 

[1] Daniel Byman, Jennifer Lind. “Pyongyang’s Survival Strategy: Tools of Authoritarian Control in North Korea.” International Security 35, no. 1 (Summer 2010): 44-74.

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