La strada federalista e parlamentare verso un’Europa a più forte legittimità

Il pamphlet di Sergio Fabbrini e Stefano Micossi offre una diagnosi molto corretta della situazione istituzionale alla quale siamo arrivati in Europa: lo abbiamo fatto attraverso il nostro metodo incrementale che tende a moltiplicare le istituzioni di governo, ma moltiplicandole finisce per far mancare i nessi che creano una logica complessiva. Un sistema istituzionale è infatti un sistema di interazioni, e queste devono avere una loro coerenza. Noi siamo arrivati al punto, che era probabilmente inevitabile, di avere due esecutivi. Lo sviluppo naturale dell’Unione Europea che corre verso la propria federalizzazione era quello, ipotizzato fin dall’inizio dai federalisti, di trasformare progressivamente la Commissione in governo europeo: dunque, un esecutivo unico. E passi in questa direzione ne sono stati fatti – non a caso, una volta eletto direttamente dai cittadini, il parlamento europeo ha subito spinto per avere un ruolo duplice, cioè non soltanto quello di fare le leggi come co-decisore ma anche quello di essere il terminale politico di un governo. In tale ottica, l’interlocutore del parlamento europeo è diventato naturalmente la Commissione, per cui quel parlamento vota la fiducia al presidente della Commissione (l’equivalente del primo ministro), ai commissari (l’equivalente dei suoi ministri), e arrivo anche a votargli la sfiducia. Questo sviluppo va nella direzione di un modello assolutamente prevalente in Europa: la forma di governo parlamentare.

Tuttavia, mentre prendeva corpo questa linea evolutiva rimaneva e anzi si rafforzava al suo fianco – ignorando il principio di non contraddizione – la linea del rapporto tra gli Stati, cioè quella intergovernativa. È interessante notare che il rafforzamento della linea governativa prende avvio proprio nel momento in cui si passa all’elezione diretta del parlamento: è allora che ci sono le prime riunioni dei capi di Stato e di governo che rapidamente generano un Consiglio europeo non previsto che finirà per diventare, col Trattato di Lisbona, una vera istituzione. Per la verità, già prima del Trattato di Lisbona, al Consiglio era stato conferito con norme settoriali il compito tipico dell’Esecutivo con la “E” maiuscola – cioè quello di dettare la politica generale. Si trattava della politica generale estera, e di quella dell’immigrazione e dell’asilo; con Lisbona, poi, gli è stato conferito il compito di dettare la politica generale dell’Unione nel suo complesso.

Potremmo dire quindi che, per via incrementale, abbiamo portato avanti entrambe le linee che erano insite nell’ambivalenza della costruzione europea – a metà tra la volontà degli Stati e la volontà dei cittadini, come scriveva infatti il Trattato costituzionale. Le due linee scorrono per certi versi in parallelo – la politica del mercato unico è tutta sul binario comunitario, mentre quella estera è tutta sul binario intergovernativo – ma ci sono anche dei punti di congiunzione. Qui è emerso allora un assetto degli organi di governo piuttosto peculiare: due esecutivi, uno con la “E” maiuscola e l’altro con “e” minuscola, ma una situazione per cui quello che fa le politiche (il Consiglio europeo) non risponde a nessuno in sede europea. Non risponde al parlamento europeo né ad altri perché i suoi componenti sostengono di rispondere al proprio elettorato o al proprio parlamento nazionale. Ecco che l’evoluzione incrementale crea così più organi di quanto ci si può aspettare, ma lascia emergere dei vuoti di legittimità e accountability dove non li vorremmo. Il problema che abbiamo oggi di fronte è come arrivare alla reductio ad unum dei due esecutivi e ad una più piena legittimazione democratica delle istituzioni europee. Tale situazione rende la costruzione europea non sufficientemente solida anche davanti all’opinione pubblica.

La proposta di Fabbrini e Micossi prevede che la legittimazione democratica in capo al Consiglio europeo vada cercata non necessariamente dentro gli schemi della forma di governo parlamentare, perché questo organismo affonda le sue radici più negli Stati membri che non nel livello sovranazionale: si vuole trovare allora una forma di legittimazione che europeizzi la derivazione statale. La diversa forma di legittimazione viene identificata nella elezione del presidente del Consiglio europeo da parte di un Collegio di “grandi elettori” che deriva dagli Stati.  È un meccanismo che in qualche misura mutua il sistema americano, sia nella scelta dei grandi elettori sia nel risultato – per cui le figure così designate rispondono a chi le ha elette e non al parlamento europeo. È una proposta che trovo coerente con la perdurante ambivalenza delle fonti di legittimazione delle istituzioni europee, cioè gli Stati e i cittadini. Tuttavia, può non essere condivisa da chi ritenga che uno dei principi di fondo europei sia quello della forma di governo parlamentare. Non a caso, neanche la Quinta Repubblica francese ha in realtà cancellato quei principi, ed anzi con la riforma del 2008 la Francia ha cercato di andare ancor più in quella direzione: la Quinta Repubblica cerca infatti di combinare l’elezione diretta del presidente con l’esecutivo che ha la fiducia del parlamento, implicita o esplicita che sia. Rimane dunque un cordone – seppure non ombelicale come nei sistemi più strettamente parlamentari – che collega governo e parlamento anche nel sistema francese. Ciò deve farci riflettere.

Più ampiamente, la proposta di Fabbrini e Micossi non chiude un problema ma apre una dinamica: nello scenario che viene delineato, quando la dinamica comincia a dispiegare i suoi effetti sembra che del Consiglio europeo resti soltanto il presidente, assistito nelle sue funzioni di governo dalla Commissione. Non è chiaro che fine faccia il ruolo dei capi di Stato e di governo, i quali continuano a sedere nel Consiglio e che vedono il presidente realizzare concretamente il consenso da essi raggiunto. Ora, questo problema si presenta in effetti anche per il meccanismo prefigurato dai federalisti “classici”: è il problema della reductio ad unum. Chi, come me, preferisce una forma di governo parlamentare non può sfuggire a questo problema, ma sceglie un percorso diverso: è un percorso che parte dal presidente della Commissione, rafforza sul piano della legittimità democratica la sua elezione e profitta della clausola del Trattato che lo consente per unificarne la figura con quella del presidente del Consiglio europeo. In questo modo, intravedo meglio per il futuro la possibilità che il governo europeo sia estratto dalla Commissione con componenti che pure saranno ministri all’americana o alla tedesca, per così dire, che non all’italiana: ministri cioè che non hanno individualmente la fiducia del parlamento ma hanno quella del capo dell’Esecutivo. Su tale strada vedo il Consiglio europeo, nel tempo, diventare un organo di alta consulenza che concorre a decisioni particolarmente delicate che investano in modo più diretto gli Stati membri. Così lo vedo anche ritornare alle sue origini, come Giscard d’Estaing lo aveva concepito: un luogo di incontro periodico per meglio capire le rispettive posizioni e dare gli input giusti a chi rappresenta i paesi nelle istituzioni europee.

Devo dire che questo esito non viene precluso nemmeno dalla proposta di Fabbrini e Micossi, che anzi la adombrano facendo capire che il presidente da loro previsto lavora con la Commissione. Dunque, siamo forse in presenza di due strade che conducono entrambe a Roma, per così dire: se è così, a maggior ragione trovo conforto nella loro proposta per le mie idee.

 

Una proposta istituzionale per l’Europa: legittimazione ed efficienza
di Sergio Fabbrini e Stefano Micossi

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