La Russia e le insidie del gioco asiatico

L’Asia è sempre di più al centro degli interessi di Mosca. Lo sviluppo della Siberia e di tutto il Far East è visto come passaggio indispensabile per tenere l’industria nazionale al passo con la globalizzazione. Anche la politica estera è sempre più orientata verso l’Asia e in particolare quella parte dell’Asia che guarda il Pacifico. Il vertice dell’APEC organizzato a Vladivostock (2-9 settembre) vuole essere il coronamento di questa scelta. Ma l’APEC serve a poco se non è sostenuta da una rete di relazioni che muova davvero capitali e cervelli, che identifichi concreti interessi comuni, che scavalchi ideologie e pregiudizi. Per questo, agli occhi di Mosca, cresce l’importanza che riveste in particolare il Giappone, nelle vesti di partner in grado di garantire quegli investimenti in Estremo Oriente che la Cina esita ad assicurare – e che i russi stessi non insistono a chiedere, timorosi che al seguito degli yuan arrivino dalla Cina anche flussi di immigrati.

I rapporti col Giappone sono bloccati da un contenzioso territoriale che si trascina stancamente da decenni, con qualche alto e basso, e che sostanzialmente è stato considerato secondario rispetto ai gangli vitali della politica asiatica del Cremlino nella fase in cui la fine della guerra fredda imponeva delicate scelte. Prima di pensare al raggiungimento di nuovi obiettivi occorreva infatti pensare a difendere il proprio “spazio vitale”. In questa ottica si è partiti dall’Asia Centrale, mentre l’incendio afghano rendeva tutto più complicato. Poi si è passati a un tentativo dio neutralizzazione della Cina attraverso la creazione di un rapporto di competizione-collaborazione gestito sempre sul filo del rasoio ma a conti fatti con successo, come indica il graduale consolidamento della SCO (Organizzazione di cooperazione di Shanghai).

Fin qui però le linee della politica estera russa portavano a lambire quel grande gioco diplomatico-militare che da più di un secolo ruota intorno al controllo della “via della seta” e dei “mari caldi”. Dimostra la capacità di attrazione di questo schema la velocità con cui Mosca si è inserita nella confusa corsa per la conquista di spazi di manovra in Pakistan. Questione di opportunità, ovvero la perdita di influenza in India anche (ma certo non solo) a causa della crescita della presenza americana, e nel contempo le difficoltà di Washington nel dialogare con chi è al potere a Islamabad. Ma è stato anche un passo indispensabile per portare a compimento una politica che vuole sfruttare al massimo il migliore atout (arsenale nucleare a parte) di cui dispone la Russia per mantenere il suo status di grande potenza, cioè gli idrocarburi. Il sogno del Cremlino è infatti un “club dell’energia” che comprenda in una sorta di grande alleanza, non militare ma strategicamente decisiva, nono solo i produttori come Russia, Repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e Iran, ma anche i grandi consumatori, cioè soprattutto Cina, India e Pakistan. Spina dorsale di questa alleanza dovrebbe essere una rete di oleodotti, gasdotti ed elettrodotti riforniti e parzialmente finanziati da Mosca: quelli di cui oggi più si parla sono la pipeline Iran-Pakistan (e successivamente India), l’altro grande progetto che collega Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India, e infine la linea elettrica da mille megawatt che dovrebbe collegare Tagikistan e Kirgyzistan all’Asia meridionale.

La novità è rappresentata dalla scelta di Mosca di dare dignità – seppure forse non ancora pari dignità – all’altra gamba della politica asiatica, quella che guarda a Nord e al Pacifico. Ma come affrontare la questione giapponese resta un dilemma tutto da risolvere. Ed è difficile dire se favorisca o rallenti ulteriormente l’individuazione di una via d’uscita il fatto che un analogo dilemma agiti le menti dei governanti giapponesi. Il problema è costituito da quelle che a Mosca sono chiamate Kurili meridionali e a Tokyo Territori del Nord. Si tratta di poche isole – Etorofu, Kunashiri, Shikotan e le isolette del gruppo delle Habomai – che furono occupate dalle truppe di Stalin nel settembre 1945. Il Giappone le rivendica affermando con buone ragioni che la resa proclamata dall’imperatore il 15 agosto era nei confronti dell’intera coalizione delle potenze nemiche e quindi la successiva dichiarazione di guerra dell’URSS non ha alcun fondamento. Mosca controbatte che quella è terra russa, di cui i giapponesi si appropriarono con la forza nel momento della loro espansione coloniale e che nel 1945 è tornata (sia pure nuovamente con la forza) ai legittimi proprietari. Il risultato è che Russia e Giappone non hanno ancora firmato un trattato di pace.

Il piano, molto pragmatico, di Putin sembra consistere da un lato nel tirare in lungo, nella convinzione che gli investimenti giapponesi possano approdare in Siberia e nella regione del mare di Okhotsk rilanciandone lo sviluppo anche in mancanza di un trattato di pace. Se poi delle Kurili proprio si deve parlare, propone un poco chiaro “pareggio”, che secondo logica va interpretato come un “due a due”, visto che i territori contesi sono quattro. È in sostanza la riproposizione della Dichiarazione congiunta nippo-sovietica del 1956, ribadita dalla Dichiarazione di Irkutsk del 2001 (firmata dallo stesso Putin e dall’allora premier nipponico Mori Yoshiro). Ma il piano presenta smagliature: la principale è costituita dal fatto che, quando c’è bisogno di trovare consensi o almeno la questione diventa di pubblico dominio, a Mosca come a Tokyo, in perfetta simmetria, il nazionalismo prevale e i toni si accendono. Così le parti appaiono in balìa di un movimento ondivago e a volte contraddittorio. E se la visita di Dmitri Medvedev a Kunashiri nel 2010 – la prima di un capo dello Stato russo – poteva avere il significato di indicare quanta importanza Mosca annettesse al Far East, è di assai difficile comprensione la seconda visita che Medvedev (divenuto intanto primo ministro) ha compiuto nel luglio scorso. “Questa è la nostra terra madre. Non daremo a nessuno neppure un centimetro”, ha detto, insistendo poi sulla decisione del governo di mandare nuove armi sofisticate nell’arcipelago.

Era una chiusura in evidente contrasto con quanto solo un mese prima si erano detti Putin e il premier giapponese Noda Yoshihiko incontrandosi al G 20 di Los Cabos. Noda aveva allora parlato di un “nuovo inizio”. Col presidente russo aveva anche preso impegni concreti: accordo di massima per la costruzione in sinergia di un impianto di liquefazione di gas naturale a Vladivostock e per prospezioni congiunte di petrolio e gas al largo di Sakhalin nell’ambito dell’ambizioso progetto Sakhalin-3.  Progetti ambiziosi che completavano quel lavoro più oscuro ma non meno importante compiuto nei mesi precedenti a livello ministeriale e che aveva portato ad una facilitazione nella concessione dei visti – indispensabile punto di partenza per incentivare gli investimenti nipponici nel Far East russo non solo attraverso l’arrivo dei colossi dell’industria, ma anche con la presenza delle piccole e medie imprese. Soprattutto, Noda e Putin avevano deciso di riavviare i negoziati per giungere, almeno in teoria, ad un Trattato di pace. In pratica forse l’obiettivo è quella “restaurazione di un clima di fiducia” che è la chiave per creare solide, buone relazioni anche in presenza di contenziosi marginali.

Ora si cerca l’occasione per ricucire l’ultimo strappo, con Putin che torna a sventolare la bandiera del compromesso e il Giappone che ripropone “l’ipotesi Mori”. Si tratta di una libera traduzione del “due a due” putiniano, consistente nell’aprire in parallelo due trattative: la prima ha l’obiettivo di realizzare la Dichiarazione del 1956, ovvero la restituzione al Giappone di Shikotan e delle Habomai; la seconda serve a discutere a chi spetti la sovranità su Etorofu e Kunashiri, ed eventualmente a firmare il trattato di pace.

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