L’influenza di Teheran sugli sviluppi della politica irachena è tornata a farsi sentire, dimostrando ancora una volta quanto il suo sostegno sia vitale per la sopravvivenza del governo di Nouri al-Maliki. In aggiunta alla tradizionale influenza iraniana sulla componente sciita irachena, gli ultimi eventi lasciano supporre che non sia immune da tale influenza neppure la formazione kurda del PUK (Patriotic Union of Kurdistan), il cui leader Jalal Talabani ricopre attualmente la carica di presidente dell’Iraq.
L’isolamento delle altre due maggiori forze politiche irachene, il KDP (Kurdish Democratic Party) e al-Iraqiyah (il blocco sunnita che detiene la maggioranza dei seggi parlamentari), lascia supporre che l’influenza dell’altro cruciale attore regionale, la Turchia, sia invece più limitata. La diplomazia turca sta infatti lavorando per favorire un’intesa con l’Iraq sulla crisi siriana. Sul fronte opposto, anche la strategia iraniana di sostegno a Bashar al Assad sembra passare per l’Iraq e più precisamente per il Kurdistan.
Nel mese di maggio, Nouri al-Maliki ha affrontato l’attacco più serio al governo dall’inizio del suo mandato. La crisi politica, scoppiata nel dicembre 2011 e ad oggi priva di soluzione, è legata alle tensioni per il progressivo accentramento di potere da parte del premier, soprattutto in merito alle nomine dei posti chiave negli apparati di sicurezza e intelligence. Nel dicembre scorso, contestualmente alla partenza delle ultime truppe americane, era infatti stato spiccato un mandato di arresto nei confronti del vice presidente della repubblica al-Hashemi. Le prospettive di sopravvivenza politica di Maliki si sono ulteriormente ridotte quando il 28 aprile scorso, anche Muqtada al-Sadr ha chiesto le sue dimissioni, unendosi al blocco delle opposizioni. Al-Sadr, leader di uno dei principali partiti islamisti, controlla 39 seggi parlamentari su 325, e si è rivelato fino ad ora vitale per le sorti del governo. Se i Sadristi, al-Iraqiyah, PUK a KDP troveranno un accordo, avranno automaticamente la maggioranza parlamentare (pari a 163 voti) necessaria a sfiduciare il governo in carica.
L’instabilità della situazione ha costretto Teheran ad uscire allo scoperto per impedire la cacciata di al-Maliki. L’azione iraniana si è mossa su due direttrici principali: il ridimensionamento della fronda sadrista e il coinvolgimento del presidente Talabani.
Talabani ha così rifiutato le richieste di sfiducia di al-Maliki da parte dell’opposizione, in mancanza di una nuova maggioranza parlamentare e un accordo sul nome del nuovo premier. Teheran vanta tradizionali legami col PUK, al quale in passato ha spesso fornito assistenza finanziaria e supporto logistico. Non è stato dunque difficile convincere il partito di Talabani a dissociarsi dall’iniziativa sunnita. In questo, Teheran ha potuto far leva sul sentimento di rivalsa dei Kurdi, violentemente repressi durante il regime di Saddam Hussein.
A richiamare all’ordine gli sciiti di al-Sadr ha provveduto, invece, l’ayatollah Khadim al-Haeri, ex leader in esilio del partito islamico al-Dawa, che insieme al Supreme Islamic Iraqi Council si era imposto nelle elezioni irachene del 2005. In esilio dal 1970, Haeri risiede nella città santa di Qom e funge da vera e propria fonte di legittimazione religiosa e politica per al-Sadr. All’inizio di giugno, l’ayatollah ha emanato una serie di fatwa che proibiscono ai suoi seguaci di appoggiare altri candidati senza il consenso dell’autorità religiosa.
Dal canto suo, anche al-Maliki ha saputo gestire bene la crisi, scegliendo di tenere due incontri del National Cabinet in Kurdistan, prima a Kirkuk e poi a Mosul, guadagnandosi così le simpatie di alcuni parlamentari sanniti (19 dei quali hanno inviato una lettera di supporto al premier).
La vicenda dimostra che l’Iran e i suoi proxies iracheni (PUK e Sadristi) giocano un ruolo vitale per le sorti della politica irachena. L’azione di Teheran, però, può innescare ancora più pericolose dinamiche a livello regionale.
In alcuni paesi confinanti, come la Turchia, il dispiegamento della strategia sciita potrebbe portare a gravi conseguenze. Ankara, in particolare, teme il rafforzamento della presenza iraniana in Kurdistan (già sotto Khomeini il PUK era utilizzato dall’Iran per contrastare l’influenza turca nel nord dell’Iraq), e in primo luogo una possibile nuova iniziativa dell’organizzazione armata PKK: il 21 giugno, un’offensiva di circa 100 ribelli contro le truppe turche schierate al confine con l’Iraq ha provocato l’incidente più grave degli ultimi anni – si sono contate 26 vittime, 8 fra isoldati turchi e 18 tra i militanti del PKK. Di fronte al ripetersi di simili episodi, la Turchia – che ha fornito fino ad ora un rapporto fondamentale ai ribelli siriani ospitando i safe havens del Free Syrian Army e la sede del Syrian National Council – potrebbe ripensare la sua strategia d’intervento, sottraendo importanti risorse alla campagna militare contro il regime alawita di Bashar al Assad.
Mentre Teheran dimostra di saper sfruttare l’impasse politica irachena per rilanciare le sue ambizioni regionali, la comunità internazionale sembra sottovalutare gli effetti della propria immobilità rispetto alla crisi siriana. L’inclusione del Kurdistan nella sfera d’influenza di Teheran ne rappresenta la conseguenza più lampante. Ma anche il verificarsi di scontri armati in Libano è un preoccupante segnale dell’allargamento della crisi: nelle scorse settimane, due soldati libanesi sono stati uccisi, e altri feriti, da truppe dell’esercito regolare siriano all’inseguimento di profughi che tentavano di attraversare il confine.
La Russia e la Cina, cui si continua ad imputare la complicità con il regime di Assad, non sono certo i soli a ragionare in termini di balance of power. La Russia, consapevole che la campagna sunnita contro Assad ha come obiettivo finale quello di indebolire l’Iran, è contraria a un cambio di regime che ridisegnerebbe gli equilibri della regione. Tuttavia Mosca non vede in Teheran un alleato ma un semplice partner con cui condividere importanti questioni di carattere regionale: contrasto al terrorismo, traffico di droga e mantenimento della sicurezza nel bacino del Caspio.
D’altra parte, nell’atteggiamento adottato da Stati Uniti ed Europa i dubbi prevalgono sulla risolutezza. Il presidente Obama – determinato a non introdurre altre incognite nella campagna elettorale – è spinto sulla via di una cauta strategia determinata dall’incertezza che seguirebbe il dopo-Assad. L’Europa, alle prese con la propria difficile situazione economica interna, preferisce affidarsi alla prassi che le è più congeniale, cioè quella della diplomazia a oltranza. In Francia, poi, non c’è più Nicholas Sarkozy – anche se il neo-presidente Francois Hollande ha sorpreso molti osservatori con alcune dichiarazioni piuttosto aggressive riguardo all’ipotesi di un intervento militare in Siria. Tuttavia Hollande, che ha invocato a riguardo il via libera del Consiglio di Sicurezza, è sembrato soltanto voler cogliere l’occasione per criticare ancora una volta la disinvolta gestione della politica estera che ha caratterizzato la presidenza di Sarkozy, ponendola in contrasto con quella attuale, più rispettosa delle istituzioni internazionali.
Se tutti concordano sul fatto che le sorti del regime di Assad sono determinanti per l’intero assetto del Medio Oriente, l’Occidente non sembra volersi schierare con chiarezza in un modo o nell’altro. Il rischio di tale linea, però, è che la vicenda assuma la forma di un affare interno al mondo islamico, cioè soprattutto un’ennesima manifestazione della divisione tra sunniti e sciiti. Questo potrebbe rivelarsi un esito nefasto, forse perfino peggiore di una qualche forma di intervento coercitivo di una coalizione internazionale con il contributo di alcuni paesi occidentali.