La Lega Araba e le fratture mediorientali

Si è svolto a Baghdad, dal 27 al 29 marzo, l’incontro annuale dei Capi di Stato della Lega Araba. Le aspettative erano molte visto che si trattava del primo vertice dopo le rivolte arabe: il vertice del 2011, previsto in Libia, venne cancellato.

L’Iraq, tra i membri fondatori, non ospitava i leader arabi dal 1990, anno in cui l’invasione del Kuwait decisa da Saddam Hussein diede inizio a due dolorosi decenni di travaglio per il popolo iracheno. Per l’Iraq, già alla ricerca del proprio posto nel mondo arabo dopo la fine dell’occupazione militare statunitense, non è però arrivato l’atteso riconoscimento da parte dei governi della regione. L’adesione di solo 10 su 22 capi di stato e l’assenza degli alti rappresentanti dei paesi del Golfo – Qatar e Arabia Saudita in testa – ripropone il dilemma delle tensioni interne alla Lega, riflesso evidente di quelle divisioni settarie che continuano a condizionare la politica mediorientale. Da notare, in particolare, che tra gli alleati statunitensi l’unico capo di stato presente fosse l’emiro del Kuwait.

Ufficialmente, doveva essere la crisi siriana a dominare l’agenda, ma il ventitreesimo vertice annuale della Lega Araba si è trasformato in un banco di prova per il governo di Nouri al-Maliki e per la sua credibilità internazionale. Anche se la gravità della crisi economica e la paralisi politica sorta dopo della partenza delle truppe americane ridimensionano, in maniera evidente, le aspirazioni irachene a divenire un player regionale di peso, Baghdad era comunque chiamata a dare dimostrazione della sua affidabilità in un contesto regionale in sommovimento.

L’assenza di molti capi di stato  può essere letta come un chiaro segnale della diffidenza che i membri più autorevoli della Lega nutrono nei confronti dell’Iraq. In realtà, un problema di fondo è l’influenza esercitata dall’Iran – storico alleato di Assad – sul governo iracheno. –Il ruolo di Teheran getta molte ombre sulla condotta di Baghdad che si è dichiarata, tramite il suo ministro degli esteri Zebari, contraria a qualsiasi intervento straniero – diretto o indiretto – sul territorio siriano, oltre che favorevole ad un processo politico condiviso e di transizione verso le prossime elezioni del 7 maggio. Di diverso avviso, come noto, Qatar e Arabia Saudita che avevano già proposto un piano per armare i ribelli, istituire safe havens nella parte settentrionale della Siria al confine con la Turchia, e destituire Assad (una strategia finalizzata alla rottura della cintura d’influenza sciita che da Teheran giunge fino al Mediterraneo). A questo proposito, al-Maliki non ha mancato di sottolineare che “armare i ribelli equivale ad ingaggiare una guerra per procura”.

In effetti, il vertice di Baghdad ha riportato – almeno sul piano formale – un risultato non trascurabile, ovvero l’approvazione del piano di pace in sei punti di Kofi Annan (inviato speciale per la Siria di Nazioni Unite e Lega Araba). Tuttavia, il clima generale degli incontri è stato offuscato dalla contrapposizione a distanza tra Qatar e Arabia Saudita da una parte e Iraq (dunque Iran) dall’altra. In un’insolita dichiarazione che ha preceduto il vertice, il primo ministro del Qatar, al-Thani, ha espresso perplessità sull’evoluzione politica interna irachena. “Crediamo che una particolare componente settaria sia colpita” ha detto al-Thani, sottolineando che la sua assenza era da intendersi come un chiaro messaggio in tal senso per il governo di al-Maliki. Il tentativo di emarginare la componente sunnita irachena era iniziata lo scorso dicembre con la vicenda del mandato di arresto a carico del vice presidente Tareq al-Hashemi.

Anche l’incontro a latere tra il ministro degli esteri del Bahrein e il premier iracheno può essere visto sotto la stessa lente. Il 28 marzo, infatti, dopo l’incontro tra i due, il ministro degli esteri iracheno Hoshyar Zebari ha dichiarato alla stampa che il tema delle proteste sciite in Bahrein non sarebbe stato oggetto dei lavori della Lega. Le proteste della maggioranza sciita, scoppiate in Bahrein sulla scia della primavera araba, e represse dalla famiglia regnante (sunnita) con l’ausilio delle truppe qatarine e saudite, hanno contribuito in maniera decisa a rinvigorire le tensioni settarie interne al mondo arabo.

Su questo sfondo, diventa più comprensibile che il vertice di Baghdad abbia avuto un’incidenza ancora minore rispetto all’evoluzione della crisi siriana. Del resto, l’incontro è stato seguito, a distanza di soli due giorni, dalla seconda riunione del gruppo Friends of Syria, i cui partecipanti non si sono limitati a sostenere il piano di Annan ma hanno chiesto una timeline precisa per la sua attuazione. Se ve ne fosse bisogno, proprio i risultati finora modesti degli sforzi di mediazione e pressione internazionale confermano come la questione siriana sia di estrema complessità; ma la Lega Araba non può certo immaginare di uscire indenne da un ulteriore deterioramento della crisi né di mantenere un atteggiamento passivo.

La fase di cambiamento in corso, segnata in maniera indelebile da aspirazioni democratiche e spinte di modernità che hanno portato alla cacciata di ben quattro dittatori di lunga data, avrebbe meritato un riconoscimento diverso da parte dei membri della Lega. Ma, evidentemente, la conclusione di questa stagione è ancora troppo lontana, e soprattutto troppo controversa, perchè si possa ipotizzare un sereno confronto interno che non tenga conto delle divisioni confessionali e settarie. È una grande sfida che segnerà il futuro dell’intero Medio Oriente.

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