La forza di Angela Merkel

La Germania, l’Europa e il mondo sono molto diversi da quando Angela Merkel, otto anni fa, diventava per la prima volta Cancelliera federale. Pochi, a cominciare dai suoi avversari socialdemocratici, si aspettavano che la taciturna presidente della CDU, figlia di un pastore luterano e politicamente cresciuta nell’ex DDR, riuscisse in pochi anni a trasformarsi nel volto della Germania, attraversando politicamente indenne un’epoca burrascosa. La nettissima affermazione elettorale le conferisce ora un terzo mandato di governo, a cui molto probabilmente vorrà associare i socialdemocratici.

Si tratterà però di una Große Koalition molto sbilanciata a favore della Cancelliera. Nel 2005 la sua nomina a capo del governo scaturì da lunghe trattative tra la CDU e la SPD, le cui forze si eguagliavano – i socialdemocratici si assicuravano in cambio il controllo dei principali ministeri. Oggi invece il partito di Merkel è cresciuto in termini di voti (41,5% in alleanza con i cugini bavaresi della CSU), fino a raggiungere i livelli degli anni ’90, e in termini di seggi, sfiorando la maggioranza assoluta: si è parlato dunque di un ritorno del Volkspartei, quel “partito del popolo” che i cristianodemocratici ritenevano di essere nei primi decenni della loro esistenza.

Senza dubbio la Cancelliera ha saputo capitalizzare al meglio il lungo periodo trascorso alla guida del paese. Spesso sottostimata nel paragone con i grandi leader tedeschi del recente passato – meno audace di Gerhard Schröder, meno europeista di Helmut Kohl, meno visionaria di Helmut Schmidt, meno carismatica di Willy Brandt, l’ha definita Le Monde – Angela Merkel gode di un livello di popolarità, dopo il secondo mandato, ben superiore a tutti i suoi predecessori. Per crescere rispetto al voto del 2009 del 7,7%, la CDU/CSU ha catturato più di un terzo dei voti liberali (in coalizione con la Cancelliera durante l’ultimo quadriennio) e la maggioranza delle preferenze di chi ha votato per la prima volta e degli ex astensionisti.

Difficile trovare altri vincitori nel voto tedesco. I socialdemocratici aumentano sì i propri suffragi (+2,7%), ma con poco più del 25% dei voti non si distaccano di molto da quello che era il loro minimo storico, e restano dieci punti più in basso del loro risultato medio degli ultimi vent’anni. La forza che solo pochi mesi inanellava vittorie nelle elezioni dei singoli Länder ha pagato di certo la scelta del candidato alla Cancelleria: Peer Steinbrück non è riuscito a costruire un profilo credibilmente alternativo a quello della sua diretta avversaria. Inoltre, da ex ministro delle Finanze durante il governo di coalizione, Steinbrück non è mai stato troppo gradito alla sinistra del partito e ai sindacati – di lui si ricorda un duro attacco ai laburisti inglesi (nel 2008), definiti poco rigoristi e spendaccioni per aver diminuito l’IVA sui beni di largo consumo.

Curiosamente, il voto offrirebbe all’SPD l’occasione di guidare una coalizione di governo di sinistra. All’interno del Bundestag infatti la somma dei seggi socialdemocratici, verdi e della radicale Die Linke (queste due formazioni si attestano su un deludente 8%) ammonta a 319, maggioranza assoluta. Ma Steinbrück e il presidente del partito Sigmar Gabriel non avrebbero la forza, nè tantomeno la volontà politica, di guidare una coalizione del genere; un’alleanza con l’estrema sinistra è da loro esclusa a priori. In economia, infatti, e idee dei due grandi partiti innegabilmente si assomigliano: l’SPD nemmeno tenta di negare i risultati economici di Angela Merkel. Preferisce piuttosto assumersene il merito: la Germania oggi “funziona” grazie alle riforme introdotte da Schröder, che hanno flessibilizzato il mercato del lavoro, tenuto bassi i salari in alcune fasce di età e di produzione, e garantito forte competitività al paese.

La leader della CDU non esita a riconoscere queste affermazioni come vere. Allo stesso tempo però, non esita ad appropriarsi dei temi del suo principale avversario politico: così, ad esempio, il salario minimo o il controllo degli affitti diventano sue proposte di campagna elettorale. Di fronte a una tale vicinanza – ma forse, data la sua misura, bisognerebbe parlare più correttamente di un quasi assorbimento da parte dei conservatori, ormai stabilmente posizionati al centro dello spettro politico – non è difficile credere che la prospettiva di una nuova Große Koalition, per di più in posizione di forza, sia preferita dalla Cancelliera rispetto alla possibilità di un’alleanza con i Verdi. Quest’ultima opzione, finora inedita e dai contorni incerti, assume qualche consistenza solo considerando il passato di Merkel come ministra dell’Ambiente e la sua conversione all’antinuclearismo, con la conseguente decisione di chiudere tutte le centrali atomiche tedesche entro il 2022, successiva alla catastrofe di Fukushima.

Non ci sono altre opzioni, se non un rischioso governo di minoranza. I liberali non hanno superato lo sbarramento del 5% (perdendo due terzi dei suffragi rispetto al 2009) e rimangono – è la prima volta dal 1949 – fuori dal parlamento. È un risultato clamoroso per una forza tradizionalmente inserita nei meccanismi della Cancelleria, sempre abile nello sfruttare il proprio potenziale di coalizione, e che ha espresso alcuni tra i personaggi più celebri e influenti della politica tedesca. Molti dei loro voti sono finiti al nuovo partito euroscettico Alternative für Deutschland (AfD), che con il 4,7% resta però anch’esso al di fuori del Bundestag. Un sollievo per la vincitrice, che vede così diminuire la pressione sulle future scelte politico-economiche del governo: proprio in AfD e tra i liberali (nonchè tra i bavaresi della CSU e del ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble) infatti si trovavano i critici più severi del suo operato europeo – l’accusa principale, paradossalmente, è quella di eccessiva generosità.

Il risultato del voto rafforza dunque la Cancelliera anche sullo scenario continentale. La coalizione con i socialdemocratici – d’altronde l’SPD in parlamento ha finora sostenuto tutte le scelte di Merkel in Europa – contribuirebbe a riavvicinare Berlino e Parigi, piuttosto fredde dopo la vittoria di Hollande in Francia. I non troppi voti raccolti da AfD dimostrano inoltre l’inconsistenza di un fronte anti-euro in Germania, fin quando naturalmente l’euro e l’economia europea continueranno ad essere gestiti principalmente secondo la volontà tedesca. Il calendario di Bruxelles, sospeso di fatto nei mesi precedenti a queste elezioni, prevede ora che la Germania si pronunci sull’alleggerimento dei carichi finanziari imposti a Grecia e Portogallo, e sull’unione bancaria.

È difficile credere, o sperare, che la rigidità tedesca si attenui durante il terzo mandato di Angela Merkel. Sensibilissima alla situazione politica locale, la Cancelliera non può permettere che il discorso euroscettico prenda forza in patria in vista delle elezioni europee del maggio 2014. Fino a quel momento, dunque, pochi sconti: l’unione bancaria sarà supervisionata dalla BCE (quindi dagli stati, quindi soprattutto dalla Germania) e non dalla Commissione; e i membri dell’eurozona, a parte casi eccezionali, dovranno tutti continuare le loro severe diete di bilancio.

Se l’atteggiamento tedesco cambierà, ciò avverrà lentamente e senza scosse: l’Europa ha dunque poche sorprese da attendersi. A parte una, però fondamentale: la Corte di Karlsruhe potrebbe a breve dichiarare incompatibile con i principi costituzionali tedeschi la possibilità della BCE di agire da prestatore di ultima istanza (a garantire insomma per i debiti di tutti i paesi dell’UE). Ciò potrebbe scatenare di nuovo la tempesta sulle borse europee, e di conseguenza costringere i governi del continente a procedere a una riforma più incisiva e profonda di tutta la costruzione comunitaria.

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