Anche alla luce dell’appello da lei firmato il 6 novembre e pubblicato su vari quotidiani, assieme a un gruppo ristretto di figure europee di grande esperienza nel campo della politica estera, l’estensione dei negoziati decisa a Vienna il 24 novembre sembra un’occasione persa piuttosto che un mezzo successo. Eppure, negli ultimi mesi di negoziati, le posizioni su alcuni punti si sono avvicinate, e lo spirito complessivo è sembrato più costruttivo che in passato. Abbiamo parlato con Emma Bonino, che ha visitato recentemente l’Iran, delle prospettive negoziali dopo la decisione di estendere le trattative almeno fino a marzo 2015.
È più corretto guardare al bicchiere mezzo pieno o a quello mezzo vuoto?
I dettagli delle divergenze negoziali non sono per ora molto conosciuti, ma la mia impressione è che si tratti realmente di un’occasione persa. Non c’è dubbio che una rottura sarebbe stata un esito assai peggiore, e tuttavia ho fortissime preoccupazioni. Il dato in qualche modo incoraggiante è che i “5+1” (o “E3+3”) hanno davvero fatto un vero sforzo per raggiungere un accordo, ma resta il problema che un prolungamento dei negoziati aumenta anche notevolmente i rischi. Intanto si perde un certo impulso positivo, e poi la nuova scadenza tra sette mesi è piuttosto ambigua: è stata presentata in effetti come una sorta di “4+3”, cioè fino a marzo 2015 per l’accordo complessivo e poi tre mesi aggiuntivi per risolvere eventuali dettagli tecnici. Questo è indicativo della permanenza di un fossato strutturale tra le posizioni delle parti, sia riguardo alla riduzione del numero di centrifughe sia del tasso di arricchimento che si è disposti a concedere a Teheran per un ciclo nucleare civile. A impedire per ora l’accordo sono state da un lato le posizioni più intransigenti soprattutto di Stati Uniti e Francia, e dall’altro quelle dei negoziatori iraniani che hanno voluto – come c’era da aspettarsi – giocare al ribasso. Le altre delegazioni sono sembrate a collocarsi a metà strada. In base a quanto è dato sapere, il problema di fondo è che un rinvio di sette mesi non serve solo a risolvere quache dettaglio tecnico – come le modalità di ispezione ecc. – e riflette dunque questioni sostanziali irrisolte. Ripeto però che i rischi sono seri: si offre così del tempo a chi, su entrambe le sponde, è da sempre contrario a un compromesso.
Quanto peseranno allora le pressioni interne che le forze contrarie a un accordo possono esercitare soprattutto sui due protagonisti decisivi – il governo iraniano e l’amministrazione Obama – del negoziato nei prossimi mesi?
Potranno pesare molto. Il Segretario di Stato americano Kerry si è subito appellato a un atteggiamento di “comprensione” del Congresso, in vista dell’insediamento del Senato (e dunque dell’intero Congresso) a maggioranza repubblicana, che conta un numero consistente di rappresentanti su posizioni dichiaratamente anti-iraniane. C’è probabilmente una maggioranza pronta a introdurre nuove misure sanzionatorie – e certo non disposta ad alleviare il regime di sanzioni come invece potrebbe richiedere il Presidente Obama, se i negoziati andassero rapidamente in una direzione positiva. Se ciò accade, di fatto viene affondato il negoziato hic et nunc. John McCain presiederà il potente Armed Services Committee, e detterà probabilmente una linea certamente dura sull’Iran. E le sanzioni sono legate a misure legislative su cui la Casa Bianca non può fare molto, al di là di un’opera di moral suasion e di lobbying.
Anche dal lato iraniano, le forze reazionarie e conservatrici utilizzeranno i prossimi mesi per sabotare i negoziati. Se ne è già avuto un assaggio con il titolo di uno dei maggiori quotidiani iraniani che titolava a caratteri cubitali “niente”, per descrivere i risultati di Vienna. Basterà impedire una riduzione consistente delle centrifughe e delle capacità di arricchimento, e l’applicazione del “protocollo aggiuntivo”, per bloccare il processo negoziale.
Aver guadagnato tempo potrebbe non risultare utile, se il tempo insomma gioca a favore degli spoilers. È chiaro che non bisogna comunque darsi per persi e il cammino deve continuare, ma dobbiamo essere tutti consapevoli che le difficoltà aumentano invece di diminuire.
Oltre alle sanzioni internazionali, in che misura i prezzi mondiali dell’energia in calo hanno forzato la mano di Teheran, spingendo il governo a lavorare più seriamente per un possibile accordo?
Certamente hanno contribuito alla fragilità dell’economia iraniana, che già soffre di una disoccupazione ufficiale del 23% e di un’inflazione del 19%. Ciò però spiega anche il tentativo da parte di Teheran di rafforzare l’asse con la Russia e con la Cina. È questo allora il contesto in cui va valutato il rinvio dei negoziati: non mi è chiaro che interesse possano avere i Paesi occidentali ad allungare i tempi.
Il mix formulato da Obama di pressioni economico/diplomatiche e “mano tesa” è stato la ricetta giusta per ottenere un risultato almeno parziale? O si poteva fare di più?
È stato un tentativo serio, ma il quesito è ora quanto capitale politico, soprattutto nei confronti del Congresso di Washington, voglia e possa ancora spendere Obama. Ricordiamo che il Presidente è esposto su molteplici fronti, dall’immigrazione alla riforma sanitaria, e l’Iran rimane un tema molto rischioso per lui (e per i Democratici in generale, anche in vista delle presidenziali del 2016) sul piano interno. La forza di Obama non potrà aumentare nei prossimi mesi.
Il quadro regionale presenta delle tendenze preoccupanti per tutte le parti coinvolte nei negoziati nucleari, seppure in modo e in misura diversi; le vicende irachene e siriane possono creare condizioni generali più propizie a maggiori concessioni reciproche?
Questo quadro regionale avrebbe dovuto indurci a fare sforzi ancora maggiori per raggiungere l’accordo, perché esiste già un accordo di fondo – pragmatico e non pienamente sfruttato – sul contrasto all’ISIS in Iraq. Ci sono contatti informali, e probabilmente c’è stato un intervento diretto dell’Iran nel paese vicino, ma nonostante questo ISIS non è ancora sconfitto. E c’è naturalmente poi il dossier siriano, sul quale il massacro continuerà se non si prenderanno misure nuove e diverse. Di nuovo, il ruolo dell’Iran può essere decisivo, ma ciò richiede di superare l’impasse nucleare. Guardando più lontano, all’Afghanistan, abbiamo sperimentato direttamente, con il contingente italiano che era dispiegato a Herat, la cooperazione iraniana a tratta c’è stata, e comunque era e resta necessario a gestire alcune aree di quel paese.
Per l’Italia, in particolare, c’è poi l’esplosione dell’instabilità in Libia, che ci ricorda come l’intero Medio Oriente sia in effetti una filiera di focolai in parte connessi. Proprio per questo un accordo con Teheran sarebbe un vero game changer, e l’inizio di una fase potenzialmente più costruttiva.