Le ottave elezioni dal 1979 eleggeranno il nuovo Parlamento Europeo. Come tutte le istituzioni comunitarie, anche questa attraversa un momento di transizione. La crisi di consenso che l’Unione vive e i cambiamenti istituzionali in corso stanno portando infatti ad un complessivo rimescolamento delle dinamiche interne all’arena politica europea.
Il nuovo Parlamento, per la prima volta dopo il Trattato di Lisbona del 2009, avrà ampia voce in capitolo nella scelta dei membri della Commissione europea; la legislatura 2014-2019 marca dunque un passaggio fondamentale per l’evoluzione dell’UE. Le novità introdotte dai trattati porteranno ad una più marcata diarchia del potere a Bruxelles: Parlamento e Consiglio saranno gli attori principali, mentre la Commissione vedrà ridotte le sue prerogative, seppur tuttora molto rilevanti in alcune aree.
Il ruolo dell’eurocamera è molto cambiato dalla prima elezione a suffragio universale del 1979, così come la sua composizione in termini numerici, che ha riflesso l’ampliamento dell’UE da nove a 28 membri. Lo stesso vale per il panorama politico che il Parlamento rappresenta. Fino al trattato di Maastricht del 1992, i partiti europei non erano riconosciuti a livello sovranazionale, sebbene sin dal 1957 esistessero delle forme di collaborazione informale tra gli appartenenti ai gruppi storici (socialisti, popolari e liberali), poi formalizzate in associazioni tra il 1974 e il 1976.
Questi gruppi europei hanno preso forma in un contesto in cui l’appartenenza ideologica rendeva chiaro il loro posizionamento. Dopo l’elezione del 1979, le associazioni politiche europee fungevano da aggregatori di partiti nazionali e vivevano principalmente dentro le mura del Parlamento di Strasburgo: i gruppi parlamentari erano la loro massima espressione politica. La nazionalità, più che l’appartenenza di partito, era il fattore che più influenzava il comportamento degli eurodeputati, almeno fino alla fine degli anni Ottanta.
La fedeltà di “gruppo” si è comunque andata cementando, paradossalmente grazie ai limitati poteri di cui godeva il Parlamento: un eurodeputato che votasse “contro” gli interessi del proprio paese non creava un caso, data la valenza soprattutto simbolica delle pronunce parlamentari. Inoltre i gruppi, all’epoca, dato il numero minore di stati membri dell’UE e anche di partiti a livello nazionale, erano certamente più omogenei. I partiti europei diventano giuridicamente riconosciuti solo nel 2003, quando un regolamento interno stabilisce i criteri relativi allo statuto e le condizioni necessarie per accedere ai contributi finanziari.
Nel 2014, il numero di partiti europei ufficialmente riconosciuti ha raggiunto la quota record di 13, perché la crescente frammentazione a livello nazionale non riesce a essere incanalata nei gruppi “classici” come quello dei popolari o conservatori (PPE), socialisti e socialdemocratici (PSE), liberali (ALDE), Verdi e Sinistra Europea. Nel frattempo si è rafforzata l’identità partitica europea: gli eurodeputati votano sempre più in linea con l’indicazione del gruppo, e non più secondo l’appartenenza nazionale. Tale tendenza tuttavia non è univoca: meno i gruppi sono ideologicamente coerenti o omogenei, meno è forte la coerenza di voto al loro interno.
L’analisi delle votazioni parlamentari nella 4°, 5° e 6° legislatura (1994-2009) mette in evidenza come i partiti europei abbiano consolidato una loro identità partendo inizialmente dall’interno delle istituzioni, per giungere infine ad essere dei soggetti che interagiscono con le opinioni pubbliche di tutto il continente. L’istituzionalizzazione dei gruppi, la continuità attraverso le legislature di molti eurodeputati e la creazione di fondazioni gestite dai partiti, oltre che l’aumento dei poteri del Parlamento, hanno creato una piattaforma politica la cui influenza ora travalica le mura del Parlamento e si ripercuote nelle arene politiche nazionali con sempre maggiore incisività. Tale fenomeno non è stato rallentato nemmeno dall’allargamento ai paesi dell’est.
L’analisi delle votazioni parlamentari nella settima legislatura (2009-14) mette in evidenza la stabilizzazione della coesione interna. I gruppi politici dell’estrema destra segnano il minimo in questo senso, anche perché sono i più instabili in termini di composizione politica, in quanto legati a leader locali specifici oppure legati a specifiche esperienze politiche nazionali. Quelli che siedono all’estremo opposto (Verdi e Sinistra Europea) votano invece in maniera più compatta. Anche il comportamento di voto dei tre principali raggruppamenti (socialisti, popolari e liberali), gli unici dotati di una rilevante struttura centralizzata e di coordinamento molto forte, è piuttosto omogeneo.
La mancanza di una formazione egemone, dovuta alla legge elettorale proporzionale che rende praticamente impossibile raggiungere maggioranze assolute da parte di un solo gruppo, ha favorito e continuerà a favorire la creazione di coalizioni centriste e la marginalizzazione delle ali estreme. I raggruppamenti più importanti (PPE, PSE e ALDE) hanno rappresentato il vero perno del Parlamento, alternandosi al potere e gestendo l’agenda dei lavori. Tuttavia, per quel che riguarda le votazioni più strettamente politiche, come i regolamenti e le proposte di policy, le maggioranze sono sempre estremamente variabili. Sui temi più rilevanti, i partiti non si dividono solo sulla tradizionale frattura tra destra e sinistra, ma anche sulla volontà di espandere la costruzione comunitaria oppure bloccarla.
Questa legislatura si è svolta durante la dura crisi economica, ma è stata anche caratterizzata da alcune nuove prerogative già conferite al Parlamento dal trattato di Lisbona, soprattutto per quanto riguarda la legislazione e il bilancio dell’UE e gli accordi internazionali. In particolare, l’estensione della procedura di co-decisione garantisce al Parlamento una posizione di parità rispetto al Consiglio, dove sono rappresentati gli Stati membri, per la maggior parte degli atti legislativi europei. Le condizioni di questi anni hanno dato nuova linfa ai partiti europei, che hanno per la prima volta dichiarato apertamente, prima delle successive elezioni, i loro candidati per la presidenza della Commissione. Ciò rappresenta una sostanziale evoluzione rispetto al passato: con questa mossa, i partiti si affermano sulle arene politiche europee in modo diretto, per cui in secondo la corsa elettorale porta con sé una loro maggiore riconoscibilità visto che gli elettori avranno modo di attribuire idee e programmi al livello europeo di aggregazione politica invece che i classici partiti nazionali.
Così, in un certo senso i partiti europei sono usciti dalle istituzioni: ora hanno un programma, un leader e un’organizzazione – diretta tramite le fondazioni, e indiretta tramite i partiti nazionali loro membri – validi per tutto il continente. Il confronto televisivo tra i candidati alla presidenza della Commissione è una novità assoluta. Sebbene la scarsa partecipazione di pubblico e la limitata copertura ne abbiano azzoppato la portata, tale evento rimane un passo storico verso l’istituzionalizzazione di partiti europei in chiave realmente transnazionale.
Il nuovo presidente della Commissione, quello dell’Unione (espressione del Consiglio) e l’Alto rappresentante per la politica estera, saranno scelti tenendo conto del risultato dell’esito del voto, cercando di bilanciare e di dar riscontro alle indicazioni degli elettori così come ai necessari equilibri tra paesi. I partiti europei giocheranno un ruolo attivo in questa partita fondamentale, sia in modo meno visibile (per via dei network relazionali tra gli stessi capi di governo) sia se uno dei candidati ora designati riceverà davvero uno dei posti in palio.
Nonostante l’accresciuto ruolo nell’arena politica continentale, molto rimane da fare per i partiti europei; infatti, malgrado l’enorme sforzo comunicativo in atto durante questa campagna, essi rimangono distanti da un elettorato disilluso e scosso dalla crisi. I sondaggi prevedono un Parlamento ulteriormente frammentato, con popolari e socialisti ancora determinanti per la costituzione di maggioranze e per il controllo dell’assemblea, ma elettoralmente ridimensionati a favore dei partiti euroscettici. In tale contesto, è probabile comunque che assisteremo a un rafforzamento del ruolo dei partiti, proprio in considerazione della necessità di “serrare i ranghi” in un’assemblea polarizzata e divisa.