L’incontro sulla Siria che si è tenuto il 30 ottobre a Vienna (presenti otto paesi non-UE, alcuni paesi membri, l’Unione come tale, più l’ONU) sancisce l’internazionalizzazione della disastrosa guerra in corso da oltre quattro anni. Come previsto, l’incontro non ha rappresentato un punto di svolta radicale per la grande crisi regionale che ha il suo baricentro tra Siria e Iraq e sta producendo onde sismiche ben oltre quei due paesi. Ha però segnato un passaggio diplomaticamente importante, con il riconoscimento collettivo che nessun attore ha di per sé la capacità di alterare gli equilibri locali. E ciò vale senza dubbio anche per la Russia, a dispetto della sua apparente dimostrazione di forza nelle ultime settimane.
A Vienna si è poi ratificato il rientro nel consesso internazionale dell’Iran – un dato di realismo politico e di buon senso che certifica in modo definitivo anche la rinuncia occidentale a gestire la crisi siriana (o meglio siriano-irachena) in modo autonomo. Anche gli iraniani sanno però bene che la loro influenza sul terreno consente soltanto di impedire alcuni sviluppi militari, non di produrre attivamente risultati in linea con i propri interessi.
Dunque, il grado di consenso emerso finora è davvero minimo. C’è però un barlume positivo che si è intravisto nei colloqui, cioè la disponibilità a limitare le proxy war incrociate che si sono combattute finora in Siria. Forse si sono create le condizioni per una specie di “accordo di desistenza”, per cui ciascuno combatte i propri nemici peggiori senza necessariamente colpire gli alleati degli altri attori coinvolti: una linea molto sottile e tutta da verificare, ma quantomeno uno spiraglio da esplorare. Il punto condiviso è che ISIS è un cancro con la pericolosa tendenza a diffondersi, adattarsi e replicarsi – e più ampiamente che i movimenti radicali sfuggono spesso dal controllo di chi li sostiene. Gli obiettivi perseguiti dalle potenze esterne sono parzialmente incompatibili, ma se nessuno è in grado di realizzarli appieno, e se tutti pagano un prezzo significativo nella situazione attuale, allora si apre un piccolo spazio di azione condivisa.
Certo, la dimensione militare è tuttora dominante rispetto a qualunque ipotesi diplomatica o negoziale, e anzi negli ultimi giorni alcune forze speciali americane si sono aggiunte al quadro super-frammentato e quasi affollato del conflitto siriano. Intanto però il ruolo russo si va “normalizzando”, dopo una fase in cui sembrava che – per ragioni non precisate – l’intervento aereo deciso da Putin potesse avere effetti decisivi in tempi rapidi. In effetti, alcune misure militari possono fare da leva per spingere le parti principali ad accettare compromessi, ma nessuna “vittoria” puramente militare è oggi possibile.
Ufficialmente, i partecipanti all’incontro di Vienna hanno ribadito che l’ONU (con il suo inviato speciale, Staffan de Mistura) dovrebbe svolgere una funzione centrale nella ricerca di una soluzione “post-Assad” di tipo inclusivo; è un approccio teoricamente corretto ma per ora lontano dal potersi realizzare. Va anche ricordato che il dittatore di Damasco è tuttora il garante della sopravvivenza della minoranza alawita nel paese – un problema di cui dovrà comunque farsi carico un’eventuale soluzione negoziata del conflitto.
Che la guerra siriana fosse diventata un vortice regionale era chiaro a molti paesi già da anni (si pensi solo a Libano, Giordania, Turchia); che avesse delle ripercussioni dirette per l’Europa si era compreso con la “crisi dei migranti” (resa più acuta proprio dai flussi provenienti da quel paese). Ora il dialogo avviato a Vienna è un ulteriore passo nella giusta direzione, ma solo un piccolo passo.