In clima di euroscetticismo dilagante, il Comitato del premio Nobel ha voluto ricordare agli europei ciò che l’integrazione del continente ha portato, cioè un’area di pace e stabilità che si è progressivamente estesa ai paesi ad est della cortina di ferro. Ma anche, implicitamente, ciò che mettere in discussione il progetto potrebbe comportare. Un messaggio importante quello del Comitato, quindi, mentre una crisi economica che colpisce i paesi europei in modo diseguale mette a nudo le difficoltà di una risposta collettiva e incrina la coesione sociale ed inter-nazionale.
E ciò è tanto più vero se si osserva il momento attuale alla luce di una diffusa ignoranza di cosa sia il processo d’integrazione europea e del suo impatto sulla vita dei cittadini. Un messaggio necessario anche a monito delle giovani generazioni, che poco studiano di integrazione europea o di istituzioni dell’UE e che sentono ossessivamente parlare solo della crisi dell’euro, dei sacrifici imposto da Bruxelles e degli incontri al vertice tra leader politici spesso percepiti come grigi e distanti. Detto altrimenti: questa è allora un’occasione per riportare nel dibattito pubblico l’attenzione verso un progetto – quello di integrazione di un continente – voluto dalla lungimirante opera di statisti dalla statura rara come Adenauer, De Gasperi, Monnet e Schuman. Il segnale è importante perché è la prima volta nella storia che il Nobel per la pace va a una regione o uno stato (e l’Unione per certi aspetti può essere considerata la sintesi imperfetta delle due cose), mentre lo avevano ricevuto organizzazioni internazionali come l’UNICEF nel 1965, l’Organizzazione mondiale del lavoro nel 1969 e l’Alto commissariato ONU per i rifugiati nel 1981, oltre a molti politici e intellettuali.
Eppure si resta con la sensazione che questo non “basti”, che alle vecchie e nuove generazioni la cosa suoni come un’operazione di archeologia istituzionale che ormai scalda poco i cuori: molti, infatti, considerano la pace in Europa un dato ormai scontato. Le giustificazioni del Comitato, peraltro condivisibili, rimangono limitate a fronte di ciò che l’UE ha fatto nel mondo a sostegno della pace. Senza indulgere nella rappresentazione dell’Unione Europea come “potenza civile” o addirittura “potenza normativa” cara al dibattito accademico degli ultimi decenni, è innegabile che l’Unione abbia avuto il merito, tanto riconosciuto dalla letteratura specializzata quanto ignoto al largo pubblico, di essersi impegnata come nessun altro attore tradizionale nella trasformazione dell’ambiente internazionale. La finalità è stata quella di superare le condizioni nelle quali più facilmente si generano conflitti, adottando una “politica estera strutturale” che tocca le origini profonde dei fenomeni ma che produce i suoi effetti solo nel lungo periodo – e per questo fatica a dimostrare la propria efficacia. Il Nobel ci ricorda che la politica estera di una potenza “monca” come l’UE (forte economicamente, assai debole politicamente) si traduce comunque in primati concreti che incidono sulla vita della gente comune, fuori dal continente europeo e non solo al suo interno. L’Unione è così al primo posto al mondo nella cooperazione allo sviluppo e nell’assistenza umanitaria, sostiene aree di integrazione regionale, e promuove democrazia e diritti umani con programmi pluriennali che prevedono un cospicuo impegno economico. L’Unione è oggi presente con programmi di questo tipo in ogni regione del mondo.
Cosa c’entra – si potrebbe obiettare – tutto questo con la pace? Molto. Come giustamente sottolineano innumerevoli documenti dell’UE (primo tra tutti la Strategia di sicurezza europea del 2003) e delle Nazioni Unite, la pace si costruisce nel lungo periodo, creando migliori condizioni di vita, sviluppando una cultura politica volta alla interazione costruttiva, immaginando istituzioni adeguate ai tempi. Lo sanno gli Stati Uniti e lo sa la vecchia Europa, che continua a crederci e – in silenzio – a impegnarsi in una politica che dà poca visibilità ed esiti immediati ma che alla lunga può portare a importanti risultati. Non dimentichiamolo, quando i dibattiti nazionali strumentalizzano la discussione sull’euro e sulla stessa UE per meri fini di bottega. Ma non dimentichiamolo neppure quando vediamo l’Alto Rappresentante per la politica estera europea esitante e in balìa delle diatribe tra Stati membri: in politica estera così come nella politica economica c’è bisogno di più Europa politica, e non di meno.