La storia recente tedesca non presenta clamorosi episodi di disordini urbani paragonabili ai riots londinesi del 2011 o alle sommosse nelle banlieues parigine del decennio anteriore. Disordini, cioè, che siano interpretabili come violente manifestazioni di disagio estremo e di anomia da parte di significative porzioni di popolazione giovanile in situazioni di marginalità sociale e culturale, spesso con origini familiari straniere, e senza riferimenti politici di alcun genere.
Tale dato indiscutibilmente positivo non permette però di sostenere che in Germania non vi siano tensioni legate alla condizione giovanile: pur con meno evidenza che in altri Paesi, e in un contesto di relativa stabilità sociale e politica, anche nella Repubblica federale si registrano problemi nel variegato mondo della gioventù urbana che non possono essere sottovalutati.
Non c’è dubbio che il positivo dato di partenza circa l’assenza di riots sia riconducibile a un quadro socio-economico molto migliore di quello di altri Stati dell’Unione Europea. I fondamentali dell’economia tedesca, com’è noto, sono buoni: la disoccupazione giovanile (secondo cifre elaborate dall’autorevole portale web de.statista.com) a marzo di quest’anno segna il 5,5%, una cifra decisamente al di sotto della media UE (22,5% nel 2014) e dei Paesi dell’OCSE (15,1%).
Ciò significa che non vi sono stati effetti negativi derivanti dall’introduzione del salario minimo legale di 8,5 euro orari, come alcuni – fra i quali ad esempio l’influente economista Hans-Werner Sinn – temevano: il numero di giovani tra i 15 e i 25 anni senza lavoro non è aumentato. Un successo dell’esecutivo guidato da Angela Merkel e, in particolare, del Partito Socialdemocratico (SPD), che aveva fatto del salario minimo uno dei punti principali della propria agenda di governo, riuscendo a imporlo un po’ obtorto collo alla Cancelliera democristiana.
Disaggregando il dato – e senza affrontare il complesso tema della natura stabile o precaria dei posti di lavoro dei giovani tedeschi – emerge tuttavia un primo elemento critico: la Germania è divisa al proprio interno. Se nei ricchi e popolosi Länder meridionali come Baden-Württemberg e Baviera la disoccupazione giovanile è intorno al 3%, a Berlino è al 10,4%.
E la stessa capitale – una città con rango di Land, come Amburgo e Brema – non è omogenea dentro i propri confini, presentando zone sia di relativo benessere sia di grande malessere sociale, come il quartiere Neukölln, dove i senza lavoro complessivamente si avvicinano al 20% della popolazione. Si tratta di un’area di storico insediamento di migranti (circa il 40% non ha origini tedesche), in maggioranza turchi, dove si registrano difficoltà nella socializzazione anche delle seconde (e terze) generazioni. Nello scorso decennio salì alla ribalta una scuola del quartiere, la Rütli-Schule, per gravi episodi di violenza degli studenti ai danni degli insegnanti.
Le zone difficili di Berlino compongono una “mappa del disagio tedesco” insieme ad aree urbane de-industrializzate come la città di Bochum (dove ha chiuso lo stabilimento Opel) e, più in generale, il bacino della Ruhr, a cui vanno aggiunte anche regioni depresse dell’ex Germania orientale. Nel variegato universo giovanile – che gode certamente di positiva attenzione da parte delle autorità poteri pubbliche, sia federali sia locali – emergono ora in particolare due fenomeni particolarmente preoccupanti, e in qualche misura speculari. Da un lato l’estremismo di destra, che appare in crescita o comunque capace di una nuova visibilità pubblica, come mostrano numerose recenti manifestazioni. Dall’altro, l’estremismo islamista, anch’esso ritenuto dalle forze di sicurezza pericolosamente vigoroso. Sono due minacce alla convivenza che non riguardano solo i giovani, ma che su di essi fanno certamente leva nel “reclutare” nuovi adepti.
Sul versante dell’estremismo di destra, negli scorsi mesi si è assistito all’ascesa del movimento dei “Patrioti Contro l’Islamizzazione dell’Occidente”, PEGIDA nell’acronimo in tedesco, attivo in particolare a Dresda. Non si tratta d’altronde di un fenomeno specificamente giovanile: vi è rappresentata ogni fascia d’età di quella parte di cittadinanza che oscilla tra ultra-conservatorismo, nazionalismo e sentimenti apertamente xenofobi e islamofobi.
Meno coperti dai media internazionali, invece, sono alcuni gruppi cresciuti in un certo senso all’ombra di PEGIDA, meno consistenti ma violenti, quali gli “Hooligans contro i salafiti” (Hogesa), nei quali la componente giovanile è decisamente più caratterizzante. Come denuncia il nome stesso, la galassia degli Hogesa si forma nell’ambiente delle curve degli stadi di calcio, luoghi di aggregazione (a forte prevalenza maschile) dove aggressività e ideologie razziste possono trovare un terreno di coltura più favorevole. Non è sempre e ovunque è così, ma gli episodi di gesti e slogan neonazisti sulle gradinate sono in crescita, spesso nell’indifferenza delle dirigenze dei club sportivi, che solo ora sembrano rendersi conto del problema.
Attraverso la parola d’ordine “contro i salafiti”, e cioè a difesa “dell’identità tradizionale tedesca contro l’islamismo radicale”, gli hooligans di estrema destra sono riusciti a darsi una forma di coordinamento che ha saputo produrre un’imponente manifestazione nell’ottobre dello scorso anno a Colonia, culminata in un’autentica guerriglia urbana. La più recente replica si è avuta a Dortmund il 28 marzo: l’affluenza è stata minore e i disordini molto contenuti, ma si è trattato comunque di un segnale inquietante di vitalità della scena neonazista.
La scelta del salafismo come “principale nemico” da parte dell’estrema destra non è casuale: quel particolare movimento islamista è molto attivo in Germania, dove riesce in un’opera di proselitismo e radicamento. Per le forze di sicurezza, nel 2014 si contavano oltre 6.000 salafiti nella Repubblica federale, un centinaio dei quali giudicato pronto a compiere azioni violente. Quello del salafismo è ritenuto dagli apparati di polizia tedeschi il terreno di coltura del terrorismo, nel quale crescono anche i cosiddetti foreign fighters: sono circa 400 (dato del 2014) i giovani tedeschi – nati in famiglie musulmane o convertiti – che si sono uniti alle truppe dello Stato Islamico in Siria e Iraq.
Il fenomeno non è solo di questi ultimi anni: destò molto scalpore nel 2007 l’arresto di quattro giovani membri di quello che si passò a chiamare Sauerland-Gruppe, una cellula pronta a compiere attentati sul territorio tedesco. La loro socializzazione politico-criminale avvenne nell’ambiente del Centro islamico di Ulm: da allora sono una sorta di archetipo del giovane tedesco reclutato nelle organizzazioni islamiste radicali.
Quella del terrorismo è certamente la manifestazione più estrema di un problema di integrazione nella società da parte di soggetti che vivono o “si sentono” in condizioni di marginalità o di irriducibile ostilità politico-religiosa nei confronti del Paese in cui sono (nella maggioranza dei casi) nati e cresciuti. Vi sono anche altre tensioni, meno pericolosamente violente ma non meno importanti, figlie del difficile incontro tra diversi retroterra culturali: e le grandi città ne sono generalmente il teatro.
L’esempio forse più recente è la vicenda del 18enne musulmano Nasser El-A., nato da genitori libanesi a Berlino, che domenica 12 aprile ha guidato una manifestazione contro omofobia e intolleranza per le strade del quartiere Neukölln. Quando aveva 15 anni comunicò in famiglia la propria omosessualità e fu rapito dal padre e altri familiari, intenzionati a portarlo in Libano per riparare al “peccato mortale” della sua condizione. Lungo il tragitto riuscì a liberarsi, e fu ricondotto in Germania dove ha vissuto sino ad ora sotto protezione. Una storia, quella del giovane Nasser, che compendia nel bene e nel male la drammatica complessità delle società urbane multiculturali.