Il Conclave che ha eletto papa Francesco può essere definito il primo “Conclave atlantico” della storia. Per la prima volta, infatti, i 33 cardinali elettori dell’intero continente americano (14 del nord e 19 del sud) hanno giocato sin dall’inizio un ruolo decisivo nella scelta del successore di Benedetto XVI dimissionario. L’esito delle votazioni, con la scelta del gesuita argentino, è il frutto di un lavoro che le Chiese americane hanno intrapreso ormai da quindici anni anche in virtù della lungimiranza di Giovanni Paolo II. Nel 1997, infatti, venne celebrata, su iniziativa di papa Wojtyla, l’assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’America. Per la prima volta, dopo decenni di sospetti e divisioni reciproche, i vescovi del nord e del sud del continente si ritrovavano insieme per discutere sul futuro della Chiesa. E scoprivano un’inattesa comunanza di problemi e di obiettivi.
Nel frattempo, con il seguire degli anni, il cattolicesimo statunitense è diventato sempre più ispanico, come dimostrano anche le recenti nomine di arcivescovi statunitensi di lingua castigliana come l’arcivescovo di Los Angeles, José Horacio Gómez Velasco. Diversi cardinali, inoltre, come l’arcivescovo di Boston, Sean Patrick O’Malley, parlano correntemente lo spagnolo per essere stati a lungo missionari in America Latina, e molti sacerdoti statunitensi sono ospitati nei seminari messicani per svolgere una parte della loro preparazione e apprendere la lingua. Questa situazione ha alimentato rapporti di amicizia e collaborazione tra le conferenze episcopali del nord e quelle del sud e continue visite e incontri dei presuli delle due aree continentali.
Nel Conclave tale unità inter-americana ha pesato decisamente. Per la prima volta il “partito della Curia” e il gruppo dei vescovi europei è stato fronteggiato da un blocco continentale molto unito e coeso, capace di portare le istanze di Chiese che, pur con i loro problemi, sono dinamiche e in crescita. La Curia invece si è presentata indebolita dagli scandali, mentre l’Europa era priva di candidati forti al soglio di Pietro e priva di una vera strategia. Il baricentro ecclesiale si è dunque spostato verso l’Atlantico dopo il pontificato decisamente eurocentrico di Benedetto XVI. E anche i cardinali degli Stati Uniti, consapevoli della difficoltà di far eleggere uno di loro, hanno preferito puntare su un cardinale di lingua spagnola piuttosto che portoghese.
La figura di Jorge Mario Bergoglio in qualche modo racchiude e sintetizza in sé tutti gli elementi qualificanti ma anche le contraddizioni della Chiesa in America Latina. Anzitutto scardina le categorie, ormai superate, di progressisti e conservatori. Il papa argentino è infatti decisamente aperto verso la questione sociale ma è legato in maniera ferrea alle posizioni codificate della Chiesa in materia morale (bioetica, contraccezione, eutanasia, matrimoni gay). Si tratta dunque di quel tipico intreccio tra difesa dei valori e sensibilità sociale che si è affermato in America Latina dopo la normalizzazione, da parte del Vaticano, delle comunità ispirate alla teologia della liberazione.
A più di trent’anni dalla conferenza degli episcopati latinoamericani a Puebla (il primo viaggio di Giovanni Paolo II), possiamo dire che l’opzione per i poveri, pur rimanendo caratterizzante, ha lasciato il posto all’opzione missionaria dell’annuncio del Vangelo, come afferma il documento finale della Conferenza generale degli episcopati latinoamericani che si è svolta ad Aparecida nel 2007 e ha visto Bergoglio tra i protagonisti. La Chiesa cattolica dunque, sfidata dalle nuove Chiese cristiane carismatiche e pentecostali che crescono sempre di più e sono diventate anche delle straordinarie agenzie di solidarietà per i più poveri, mette da parte la frontiera della lotta per la giustizia sociale e punta direttamente sull’evangelizzazione.
Questo cambiamento di orizzonte nell’azione ecclesiale è legato anche alle modalità di selezione dell’episcopato latinoamericano che a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II ha visto progressivamente emarginare o sostituire le personalità più legate al fronte progressista, lasciando il posto a figure meno sensibili ai temi della giustizia sociale e più a quelli della fede e del magistero etico. Nel frattempo si compiva anche una mutazione radicale a livello di regimi: le dittature militari instaurate negli anni Settanta in Argentina, Brasile, Cile, Paraguay, Uruguay, Perù, Haiti, venivano progressivamente sostituite dalle democrazie. Ma a questo passaggio storico non ha corrisposto una “purificazione della memoria” nella Chiesa rispetto ai rapporti intrattenuti con i regimi militari. La figura di Bergoglio è in qualche modo la sintesi anche di questo nodo irrisolto: pesano le accuse che gli sono state rivolte di aver lasciato che due confratelli gesuiti, Orlando Yorio e Francisco Jalics, venissero presi dal regime militare e deportati sulla “Isola del silenzio” per aver denunciato con troppa veemenza le violazioni della democrazia. Bergoglio, allora padre provinciale della compagnia di Gesù, non avrebbe condiviso le posizioni dei due religiosi e avrebbe lasciato che venissero arrestati. L’attuale pontefice nel 2010 in un libro intervista (“El Jesuita”) ha confutato queste accuse, ma resta il fatto che la Chiesa argentina non ha mai avviato una compiuta riflessione su quel periodo storico e sui rapporti intercorsi con i regimi militari.
Dal punto di vista diplomatico il pontificato di Bergoglio è anche chiamato a un profondo ripensamento del ruolo della Chiesa nel contesto latinoamericano dopo la morte del presidente venezuelano Hugo Chávez e l’uscita di scena di Fidel Castro. In un contesto di progressiva dissoluzione dei riferimenti politico ideologici di un tempo, la Chiesa cattolica è chiamata a un nuovo e diverso protagonismo ma sconta alcuni anni di disattenzione rispetto all’orizzonte latinoamericano, durante il pontificato di Ratzinger. Ora si tratta di recuperare il tempo perduto con una precisa strategia.
Al tempo stesso, spostatosi il baricentro geopolitico della Chiesa cattolica verso l’Atlantico, papa Francesco è chiamato a non affievolire l’azione intrapresa da Benedetto XVI in Europa per contrastare la scristianizzazione e l’indifferenza religiosa. E dovrà mantenere al centro dell’attenzione anche la frontiera asiatica, in particolare la Cina, verso la quale papa Ratzinger aveva puntato molto sulla scorta di una storica lettera inviata nel 2007.
Sono sfide molto complesse per una diplomazia vaticana che ha progressivamente perso di incisività. Tuttavia il mandato che il collegio cardinalizio ha affidato al nuovo papa nel corso delle recenti congregazioni generali include anche una promozione dello strumento della collegialità nel governo della Chiesa: questo porterà a un coinvolgimento sempre maggiore delle conferenze episcopali nazionali. Nuovi attori dunque si affacciano sullo scacchiere geopolitico del Vaticano.