L’incontro di Berlino è andato come previsto: una versione italo-tedesca del britannico “agree to disagree”. Matteo Renzi ha ottenuto dalla donna più potente d’Europa quello che poteva realisticamente ottenere: un appoggio alle riforme già fatte (jobs act) e a quelle ancora da fare. Questo riconoscimento politico è vitale per un giovane premier che Merkel ritiene migliore delle possibili alternative.
L’interesse di Renzi è di rafforzare, assieme a se stesso, anche la posizione dell’Italia nel Vecchio Continente: un’Italia – come il premier sostiene da mesi anche attraverso le polemiche con Bruxelles – che è ormai parte della soluzione e non del problema. E che quindi ha il diritto di parlare apertamente, di non essere considerata un “osservato speciale” e di sedersi a pieno titolo nella prima fila del club.
Angela Merkel ha accettato il primo tratto del teorema Renzi: l’Italia è parte della soluzione alle crisi molteplici cui l’Europa si trova di fronte. E’ più difficile, per la Cancelliera tedesca, accettarne anche il secondo tratto: vista dalla Germania – e cioè da un paese fortemente influenzato da una cultura “ordo-liberale” che vede nella stabilità finanziaria la condizione per stare insieme in Europa – l’Italia resta anche parte del problema. Lo è ancora, visto il peso del debito pubblico. Era scontato, quindi, che Merkel (già indebolita sul piano interno dai contraccolpi della sua prima apertura ai rifugiati siriani) non potesse concedere quasi nulla – al di là di una dichiarata neutralità tedesca – sul dossier economico centrale in discussione fra Roma e la Commissione europea: la flessibilità di cui potrà avvalersi l’Italia con la Legge di stabilità. Ottenere margini su questo punto, decisivo per Roma, era una classica mission impossible in una Berlino con la testa già rivolta alle elezioni del 2017.
Un vertice incoraggiante sul piano politico, elusivo su quello economico (non vi sono accenni, nelle dichiarazioni pubbliche, a una discussione sui problemi della crescita in Europa o del rafforzamento del piano Juncker e tantomeno della delicata questione bancaria) e interlocutorio sui problemi dell’emigrazione. Su questo ultimo dossier era la Germania a chiedere qualcosa all’Italia. L’obiettivo di Angela Merkel è infatti quello di sbloccare l’erogazione dei famosi 3 miliardi di euro destinati alla Turchia per gestire l’afflusso di rifugiati (più di 2 milioni a Istanbul).
È una decisione che incontra da parte di Roma una serie di obiezioni che si potrebbero definire “tecniche” (alcune fondate, altre meno) ma che in realtà riguardano ancora la flessibilità. È probabile che l’Italia ritirerà il proprio veto entro la Conferenza dei donatori (“Supporting Syria and the region”) che si terrà il 4 febbraio a Londra. Ma Roma tenterà anche di guadagnarsi, nel farlo, alcuni margini di bilancio: la tesi, come noto, è che i costi eccezionali della gestione dei problemi dell’immigrazione vadano scomputati dal calcolo del deficit.
Dietro al problema dei fondi da erogare alla Turchia, esiste anche, in materia di politica migratoria, una sfasatura sulle priorità. Per l’Italia, la priorità è di ottenere una revisione del regolamento di Dublino, che fa pesare oneri sproporzionati sui paesi di primo ingresso. E’ una riforma che Berlino considera accettabile ma che resta per ora sulla carta. Per la Germania, la priorità è di aumentare la serietà dei controlli nei paesi più esposti (Grecia e Italia, appunto) così da rafforzare le frontiere esterne dell’Unione.
Un compromesso, io credo, è possibile e necessario. In assenza di un compromesso, del resto, Italia e Germania rischiano parecchio entrambe. L’Italia teme di restare imbottigliata fra la frontiera liquida a Sud e frontiere sigillate a Nord dalla sospensione del sistema di Schengen. Angela Merkel rischia – anzi, sta già soffrendo – una perdita progressiva di consenso politico. Incentivi per un accordo esistono quindi da entrambe le parti. E non c’è dubbio che la costruzione di un’intesa fra Berlino e Roma sia una delle condizioni indispensabili per evitare che la crisi migratoria disgreghi, più di quanto non sia riuscita a fare la crisi finanziaria, l’Unione europea.
E’ sempre ingenuo pensare – così insegna la realtà della politica internazionale – che vertici bilaterali di questo tipo producano risultati concreti immediati. L’incontro di Berlino è nato, essenzialmente, dall’esigenza di superare un eccesso polemico nei rapporti bilaterali: l’esito, per definizione intangibile, riguarda la relazione personale fra Renzi e Merkel. Entrambi sono condizionati fortemente dai rispettivi problemi domestici; ma scaricarli all’esterno non è mai una soluzione ideale. Entrambi hanno bisogno di condizionare l’Ue per tutelare le priorità nazionali.
Se la Germania ha molte più leve per riuscirvi dell’Italia, né Berlino né Roma possono in realtà trarre vantaggi a lungo termine da soluzioni unilaterali. Per la Germania, ragionare in chiave europea segna tutta la differenza fra l’essere il paese dominante ed esercitare una egemonia (benevola); per l’Italia, la differenza consiste – torniamo al teorema Renzi – nell’essere parte stabilmente della soluzione, più che del problema. Il futuro dell’Europa sarà fondato su una crescente differenziazione interna: per l’Italia sarà decisivo avere la solidità economica e le alleanze necessarie per essere parte dei “nuclei ristretti” che si formeranno.
Se l’incontro di Berlino sarà servito a rassicurare Merkel e Renzi sulle intenzioni reciproche, le differenze di approccio non si dissolveranno di certo. Ma esisterà quella base di fiducia indispensabile per cooperare in un’Europa che appare ormai largamente dominata dalla logica inter-governativa.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 30 gennaio 2016.