Il complicato fattore Cina per il vecchio continente

L’attenzione dei media e, di riflesso, delle opinioni pubbliche europee si è gradatamente allontanata dalla Cina. Fino a qualche anno fa, invece, i sentimenti erano vivi e contrastanti. Il grande paese asiatico veniva sì ammirato per la sua crescita, ma si trattava di osservazioni piene di severissimi caveat e distinguo: le condizioni di lavoro disumane – lavoro che, si sottolineava, veniva sottratto agli operai europei; la censura, specialmente quella su internet; l’inquinamento intollerabile; l’uso massiccio della pena di morte in assenza di vera rule of law.

Era un confronto teso, fatto – al di là della questione-competitività – proprio in opposizione a quelle che gli europei ritengono le caratteristiche migliori delle loro società (libertà, diritti, ambiente), che oggi è passato sotto traccia: il settimanale tedesco Die Zeit è ad esempio tra le poche grandi pubblicazioni a sottolineare ancora come il numero di esecuzioni capitali in Cina sia nell’ordine delle migliaia l’anno, e che ciò si svolga nell’assoluta mancanza di diritti degli imputati/condannati e perfino di informazioni sugli individui coinvolti.

Alcuni nudi fatti sono alla base del mutato atteggiamento europeo verso la Cina. Intanto, Pechino ha consolidato nell’ultimo periodo, e a grandi passi rispetto ad alcune previsioni prudenti, il suo ruolo di player globale di primo piano – sul piano politico oltre che su quello economico. Se l’Europa si è sentita in passato impegnata in una forma di competizione perché ciò non accadesse, o accadesse il più tardi possibile, quella competizione adesso si è conclusa. La preminenza cinese è un dato acquisito, dunque non ha alcun senso sentirsi coinvolti in una partita “contro” Pechino.

Inoltre, l’Europa del 2016 è assediata da un numero svariato di crisi. Al di là dei dissidi e delle ferite interne, pure gravi, lo scenario è peggiorato alle sue frontiere: in Nord Africa, in Medio Oriente, sulle sponde del Mediterraneo e ai confini con la Russia. La Cina è un soggetto internazionale che non ha direttamente a che fare con questi teatri geopolitici – sebbene il suo ruolo stia gradualmente crescendo: da qui un altro relativo calo di interesse.

Infine, il flusso di investimenti cinesi verso il continente europeo non è mai stato così alto. L’economia della UE, dal punto di vista della crescita, resta anemica: le previsioni per il pil cinese (che aumenterà “solo” del 6,5% nel 2016, secondo Pechino, in forte ribasso rispetto agli anni d’oro) sono viste come un miraggio nelle capitali dell’Europa occidentale, dove tassi del genere non si registrano da almeno vent’anni in nessun paese – con l’eccezione dell’Irlanda, poi però crollata rovinosamente. E quindi, di fronte all’opportunità di intercettare investimenti freschi e tanto necessari, certe critiche del passato hanno lasciato spazio a un atteggiamento ben più conciliante. Nulla è cambiato nemmeno negli ultimi mesi, quando gli squilibri dell’economia cinese e i capitomboli della borsa di Shanghai hanno contagiato la stessa economia europea.

Effettivamente, il volume dei flussi di investimento cinesi è notevole. Come ha riportato di recente il Financial Times, quelli diretti nell’area economica che comprende UE, Svizzera e Norvegia sono ammontati nel 2015 a 20 miliardi di euro (contro i 13 negli Stati Uniti). Ancora più impressionante il ritmo di crescita: l’anno precedente erano 16 miliardi, mentre nel 2013 solo 8. Il record dei 20 miliardi – dei quali 7 destinati all’Italia, grazie all’accordo tra Pirelli e ChemChina, e 3 alla Francia – è destinato a essere bruciato di nuovo nel 2016: il 97% degli imprenditori cinesi, secondo un’inchiesta della Camera di Commercio UE in Cina, vuole investire molto di più. Altri 10 miliardi – ha assicurato in settembre il vice-premier Ma Kai al vice presidente della Commissione Jyrki Katainen – saranno destinati a rimpolpare il piano di investimenti pubblici dell’Unione Europea, soprattutto nell’ambito del digitale di nuova generazione.

Una tale escalation dell’impegno economico di Pechino in Europa ha coinciso con la dipartita, sui giornali, delle notizie riguardanti la Cina dalle pagine di politica e società: ora restano confinate a quelle di economia. E anche, in pratica, con l’uscita del “problema cinese” dalla dialettica politica dei paesi europei.

“La Cina ha provocato la rovina delle nostre industrie e della nostra economia grazie alla concorrenza sleale”, martellava Marine Le Pen nel 2011, prima della campagna elettorale presidenziale francese. E non era l’unica a farlo, all’epoca, nei partiti di opposizione e anche di governo. Ma la leader del Front National, come molti suoi colleghi, oggi evita di nominare il paese asiatico in senso critico; i suoi slogan hanno ancora un tono protezionista (“acquistiamo francese!”), ma la ragione è che “non possiamo comprare merci prodotte a 10, 15, 20.000 km da qui, perché è un dramma per l’ecologia”.

È un sintomo del riadattamento alla nuova dimensione economica e politica della Cina. Non solo l’opinione pubblica non sosterrebbe più un eventuale boicottaggio o blocco delle merci cinesi verso l’Europa, ma questo sarebbe ormai impossibile di per sè, a causa dell’onnipresenza di queste merci in tutti i settori.

I capi di stato europei fanno ormai della missione commerciale in estremo oriente uno dei momenti cardinali dei loro mandati. “Perché riparta la nostra economia, perché cresca la nostra competitività, perché diminuisca la disoccupazione, perché migliori il nostro sguardo verso il futuro: per questo abbiamo stretto accordi commerciali per 18 miliardi con la Cina”, affermava il Presidente francese François Hollande durante la sua visita di due anni fa, accanto a un sorridente Xi Jinping.

Questi contenuti, anche se con un tono meno miracolistico, sono stati condivisi dagli altri Capi di Stato europei nei loro incontri di Stato con i leader cinesi – da Angela Merkel a Mariano Rajoy, tutti i rappresentanti dei Paesi maggiorine hanno avuto almeno uno negli ultimi 24 mesi. “Qui nel Regno Unito non festeggiamo solo l’inizio dell’Anno della Scimmia, ma anche la crescita delle relazioni tra Londra e Pechino, che attraversano una fase luminosa e splendente: nelle nostre università grazie ai vostri studenti, negli affari grazie ai vostri investimenti, nelle città grazie ai vostri turisti”: così si esprimeva il primo ministro David Cameron in un video messaggio in occasione del capodanno cinese, nel febbraio 2016.

La nuova retorica pro-cinese resisterà agli squilibri economici di Pechino? “La svalutazione dello yuan fa tremare il pianeta”, titolava l’edizione economica di Le Monde nelle scorse settimane; ma la valuta non è l’unico problema. La frenata dell’economia cinese originerà, in molti settori, una crisi di sovrapproduzione: il mercato cinese, cioè, non sarà più in grado di assorbire tutte quelle merci prima prodotte dalle industrie locali. Sta già accadendo con l’acciaio: quello che non viene più impiegato nei grandi progetti infrastrutturali, bloccati dalla crisi, viene venduto in Europa sottocosto, per smaltirne le scorte inutilizzate. L’industria europea dell’acciaio, anch’essa sovradimensionata rispetto alle necessità, rischia così di non reggere il colpo – come sta già accadendo con più evidenza nel Regno Unito, ma anche altrove. Situazioni analoghe rischiano di ripetersi in altri settori.

Se la frenata di Pechino dovesse essere più brusca del previsto, servirà insomma qualcosa di più di un esercizio di retorica ai dirigenti politici per affrontarne le conseguenze in Europa.

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