Il bilancio cinese della difesa: traiettoria strategica e fattore USA

La spesa militare della Cina crescerà quest’anno dell’11,2 per cento. Rispetto ai 601 miliardi di yuan del 2011 (circa 67 miliardi di euro), quest’anno Pechino ne investirà 670,3 (circa 76 miliardi). I dati hanno causato un certo allarme tra gli osservatori, ma queste cifre non segnano una particolare novità, confermando piuttosto un trend che dura da oltre un ventennio. Dal 1989, infatti, la spesa per l’esercito è sempre cresciuta in doppia cifra (tranne che in un anno) e in modo alquanto regolare. Se però nel 1996 la spesa ufficiale ammontava a 70 miliardi di yuan (8 miliardi di euro),  ora quei 70 miliardi rappresentano appena un aumento annuale. I dati sono peraltro da valutare come stime assai approssimative: la cifra ufficiale del 1996, ad esempio, era considerata da molti analisti occidentali come la metà del bilancio effettivo.

Il budget del 2012 è stato annunciato prima dell’apertura dall’Assemblea nazionale del popolo, il Parlamento cinese che si riunisce una volta all’anno e che ha chiuso il 13 marzo i suoi lavori. Se i dati ufficiali parlano di 670,3 miliardi di yuan (circa 76 miliardi di euro), come in passato molti esperti ritengono che la cifra reale sarà nettamente maggiore, visto che non comprende il progetto di Pechino di dotarsi di una portaerei e di una nuova generazione di jet da combattimento con tecnologia stealth.

A detta del portavoce dell’Assemblea Li Zhaoxing, «il budget serve per mantenere 2,3 milioni di effettivi e a sostenere i costi di ricerca, sviluppo e trasporto degli armamenti». Ma secondo Antony Wong Dong, presidente dell’Associazione militare internazionale, di stanza a Macao, se venissero inclusi anche i “progetti speciali” il budget cinese raddoppierebbe. «Il costo della portaerei, dei J-20 e di altre armi avanzate verrà coperto da fondi speciali allocati direttamente dal ministero delle Finanze». Anche per l’esperto taiwanese di cose militari Arthur Ding Shu-fan «il budget reale è di gran lunga maggiore, a causa delle nuove armi di cui Pechino vuole dotarsi per riuscire a competere con il nuovo impegno di Washington nella regione».

D’altra parte, il cammino per avvicinarsi alle capacità americane è ancora lungo. Sebbene in gennaio Barack Obama abbia confermato l’impegno a ridurre le spese militari americane di 487 miliardi in dieci anni, a dicembre il Congresso statunitense ha approvato un bilancio da 662 miliardi di dollari per la difesa, con l’intento di «rafforzare la nostra presenza militare nel settore Asia-Pacifico».
 
Più ancora delle cifre assolute, preoccupa l’incertezza sulle intenzioni del regime. La Cina spende oggi ufficialmente l’1,28 per cento del suo Pil per la difesa, anche se Washington ritiene che si tratti almeno del 2 per cento. In ogni caso, è una percentuale non particolarmente alta su scala mondiale, che viene però collocata nel contesto di una lunga serie di dispute territoriali irrisolte nel Pacifico.

Il presidente Hu Jintao ha recentemente affermato che le forze armate servono «per difendere i nostri interessi e i nostri confini». Una frase obiettivamente vaga, che può riferirsi sia alla difesa dei cinesi che lavorano all’estero (come i 30mila civili evacuati dalla Libia l’anno scorso, o le decine di cinesi rapiti dai ribelli in Sudan), sia ai delicati rapporti con Giappone, Vietnam, Filippine e Corea del Sud per aggiudicarsi porzioni di Mar Cinese meridionale.

Nelle ultime settimane, in particolare, si è riacutizzato lo scontro tra Pechino e Seul per quello che i cinesi chiamano Suyan Reef e i coreani chiamano Ieodo Reef. Le autorità cinesi hanno dichiarato che è parte delle acque di giurisdizione cinesi e che per questo verrà pattugliato dalla Marina. Il presidente sudcoreano Lee Myung-bak ha risposto per le rime, affermando che «invece cade naturalmente nelle aree controllate dalla Corea del sud». Va ricordato che la disputa verte su uno scoglio che si trova 5 metri sotto il livello del mare, eppure ben sedici incontri bilaterali non sono bastati a risolverla, a testimonianza della delicatezza del problema. Tra le acque giurisdizionali della Cina, le autorità di Pechino includono anche le isole Diaoyu (reclamate dal Giappone con il nome di Senkaku), il Huangyan Reef (reclamato dalle Filippine, che lo chiamano Panatag Shoal), e le isole Paracel (che il Vietnam rivendica con il nome Hoang Sa).

Proprio alla luce di questa situazione regionale, nel corso degli ultimi mesi Washington ha intensificato la cooperazione militare con Malaysia, Singapore, Filippine, Indonesia e Australia.

Sempre su questo sfondo, diventa cruciale leggere anche le cifre in modo diverso: ad esempio, l’aumento di quest’anno nel bilancio cinese della difesa, pari a 70 miliardi di yuan, equivale all’intero bilancio di Singapore, che spende per il suo esercito molto più di qualunque altro paese del Sudest asiatico. Un altro dato indicativo è quello commentato con una certa enfasi da un recente rapporto dell’International Institute for Strategic Studies di Londra: per la prima volta in assoluto le spese militari dell’Asia saranno superiori  a quelle dell’Europa. Mentre i paesi europei, complice la crisi economica, continuano a tagliare i bilanci della difesa, i paesi asiatici investono con continuità e in misura crescente. Del resto, il rallentamento dell’economia globale non è stato certo simmetrico, e soprattutto la Cina sta a dimostrarlo.

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