I think tank in un quadro politico polarizzato e i pericoli dei social media

A un anno dalle elezioni presidenziali i think tank americani sono già in piena campagna elettorale. I loro esperti competono per ottenere accesso ai candidati alle primarie, che devono ultimare le squadre della loro “amministrazione ombra”; intanto questi centri di ricerca cercano di influenzare l’agenda politica e il punto di vista dell’opinione pubblica intensificando la produzione di report e di policy paper, pubblicizzandone i risultati sui media e installandosi in pianta stabile sui social network, mentre i loro ricercatori garantiscono alle reti televisive e ai grandi giornali il fabbisogno quotidiano di opinioni.

In realtà i think tank si sono affacciati nell’arena elettorale, per “fare opinione”, in tempi relativamente recenti. Nel loro secolo di storia queste organizzazioni sono state percepite a lungo come appannaggio della sola classe dirigente in qualità di luoghi all’interno dei quali si potevano immaginare e pianificare proposte policy ad un livello di dettaglio tale che il grande pubblico non avrebbe potuto apprezzare. Si trattava di luoghi franchi nei quali le élite politiche, economiche e scientifiche potevano incubare idee e discutere dietro le quinte rispetto al gran caos prodotto dalla competizione democratica. Fino agli anni Settanta del secolo scorso, insomma, i think tank sono stati percepiti come “strumenti per aiutare il governo a pensare”, piuttosto che luoghi di accumulo di munizioni culturali da utilizzare in campagna elettorale.

In seguito, però, quando il campo dei think tank si è allargato ai nuovi arrivati dell’era reaganiana – Heritage Foundation, Cato Insitute… – essi hanno assunto un ruolo di primo piano nella stesura dei programmi presidenziali e nella loro comunicazione a un pubblico più vasto, allo scopo di allargare consenso e interesse verso l’universo di valori e di proposte della nuova guardia del Partito Repubblicano. L’avvento delle TV via cavo come CNN e Fox News, nate negli anni Novanta e che trasmettono notizie 24 ore su 24, ha contribuito a mediatizzare ulteriormente la figura dell’esperto, evolutosi in commentatore quotidiano degli eventi politici, o pundit come lo si chiama in America (di quell’epoca l’allestimento di studi televisivi direttamente dentro le sedi dei think tank di Washington). Infine, la nascita del web e soprattutto dei social network ha favorito l’affermazione di un modello di esperto impegnato in attività di advocacy permanente, ovvero che non rimane oggettivo ma si sbilancia chiaramente a favore dell’una o dell’altra proposta politica, con una sua base di lettori impegnati a diffondere le idee sulle quali si possa manifestare consenso con un Like. In sostanza, anche nelle vecchie organizzazioni più autorevoli e paludate, si è creata una stratificazione di funzioni per l’esperto che si candida a un ruolo pubblico e/o politico: serve la conoscenza, la ricerca, il marketing, l’efficacia comunicativa (fino alla gestione dell’interazione con il proprio pubblico). Non basta più l’ancoraggio, pur sempre necessario, al circuito delle élite e degli stakeholder più importanti di uno specifico settore delle politiche pubbliche.

A questo si è aggiunto un altro fenomeno, emerso anche grazie al lavoro dei think tank di nuova generazione, che ha contribuito alla ridefinizione del ruolo di queste organizzazioni: la polarizzazione ideologica del sistema politico americano. In questo senso i think tank sono divenuti motore di produzione di sapere “di parte”, già politicamente orientato. Se si apre oggi il sito dell’American Enterprise Institute (AEI) o quello della Heritage Foundation si troverà un’agenda di ricerca segnata dall’anti-Obamismo, destinato velocemente a divenire anti-Clintonismo vista la posizione prominente di Hillary Clinton nella campagna democratica: le aree di analisi sono il sistema sanitario, gli studi su povertà e welfare, la politica estera (nemico pubblico numero uno: l’accordo con l’Iran); la modalità primaria di comunicazione è quella della instant expertise: un esempio recente ne è il “rimbalzo” sul sito dell’AEI di studi che comprovano quanto conti positivamente per un bambino crescere all’interno di una struttura familiare tradizionale. E ancora, i temi tradizionali della destra repubblicana, in primis la lotta al big government.

Lo stesso vale per i think tank di area liberal: sia questi sia quelli conservatori parlano degli stessi argomenti affrontati dai candidati alle primarie dei due partiti principali. Contribuiscono alla creazione della narrazione liberal e della narrazione conservatrice: ognuno costruisce un campo di senso che non si incontra mai con quello dell’avversario, tanto nel mondo elitario delle conferenze dei think tank che in quello pubblico dei loro social network.

Il democratico Center for American Progress si concentra sul cambiamento climatico e aumento della paga media giornaliera per i lavoratori salariati e di diseguaglianze di reddito; un’intera sezione di lavoro è dedicata al progressive movement: di cosa deve parlare, come, e interagendo con quali segmenti sociali. La lezione che è stata appresa, una lezione che ha a che fare con la comunicazione, è quella di George Lakoff, il celebre linguista autore di “Non pensare all’elefante”. Lakoff suggeriva ai Democratici – sconfitti nel 2000 e nel 2004 – di costruire una propria cornice narrativa, un proprio universo di idee, linguaggi e valori che parlasse al proprio mondo, invece di rincorrere e ribattere le scelte dell’amministrazione Bush.

E questo fino all’evoluzione ultima di alcuni think tank – come la conservatrice Heritage Foundation – che sono arrivati persino a costruire proprie campagne di mobilitazione dal basso, divenendo promotori di azioni grassroots attraverso una struttura parallela (la Heritage Action nel caso specifico).

E i cari vecchi think tank della vecchia guardia? Brookings, Council on Foreign Relations, il Center for Strategic and International Studies, il Peterson Institute… In un’America conflittuale, mantengono il loro prestigio bipartisan, ma si sono presi particolarmente cura “dell’elefante”. E in questo caso l’elefante è l’amministrazione Obama, con il suo bagaglio di valori e proposte politiche costruiti negli anni della crisi economica e in contrapposizione all’egemonia repubblicana del decennio precedente. L’asse generale del discorso pubblico sembra essersi spostato, il dibattito della metà dei Duemila sembra lontano anni luce da quello attuale: probabilmente a mutare sono state le esigenze del pubblico americano e delle sue classi dirigenti (più difficile classificarlo come successo di Obama tout court). Un problema in più per il campo repubblicano, sempre più diviso e conflittuale.

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