I problemi di fondo dietro la facciata del G20

Stiamo ultimamente assistendo ad un riaccendersi delle tensioni internazionali sul fronte economico. L’entusiasmo per la cooperazione globale sulla politica economica che aveva caratterizzato le prime fasi della crisi finanziaria si è ormai spento, e sembra essere via via sostituito da un’atmosfera di sospetto e di disaccordi a volte aspri tra alcuni dei principali paesi. Il recente summit del G20 a Toronto è sembrato quasi creare creare una situazione di disagio per i leader, costretti a dare l’impressione di una identità di intenti e di vedute che in realtà oggi non esiste. Il casus belli è stato la crisi debitoria che ha recentemente colpito l’Europa, e che ha suscitato un acceso dibattito sull’opportunità o meno di accelerare il risanamento delle finanze pubbliche. Ma la vera radice del disaccordo è un contrasto di tipo più tradizionalmente mercantilistico, che coinvolge quindi la Cina più ancora che l’Europa. In Europa, le pressioni del mercato e le tensioni sui titoli obbligazionari governativi hanno spinto diversi governi ad adottare misure di austerità. Grecia, Irlanda, Portogallo, Inghilterra e Spagna, cioè i paesi coi disavanzi pubblici più grandi, hanno lanciato un deciso sforzo di aggiustamento. Anche l’Italia, che pure aveva chiuso il 2009 con un disavanzo molto più ridotto degli altri paesi cosiddetti “periferici”, ha annunciato una manovra aggiuntiva per assicurare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione del deficit negli anni a venire. La stessa Germania, pur essendo già rimasta in linea coi vincoli di Maastricht, ha annunciato nuove misure per una ulteriore riduzione del disavanzo. Queste misure hanno generato allarme negli Stati Uniti, e l’amministrazione Obama ha più volte messo in guardia contro il rischio che una stretta fiscale prematura possa spingere l’economia Europea, e quella mondiale, in una nuova recessione. Il rischio è in realtà molto più ridotto di quanto il dibattito pubblico non possa suggerire: l’aggiustamento fiscale nei principali paesi di Eurozona, Francia Germania e Italia, è moderato, non drastico. Nel breve termine, pero’ anche una stretta fiscale moderata renderà la crescita Europea ancora più dipendente dalle esportazioni, che già costituiscono il motore principale della ripresa. Dato che nel frattempo l’euro si è deprezzato sostanzialmente, la performance delle esportazioni dovrebbe rimanere robusta—Unicredit stima un contributo del deprezzamento del cambio alla crescita europea di circa 0,8 punti percentuali nei prossimi dodici mesi. Questi calcoli, naturalmente, possono rassicurare gli europei, ma non gli americani, il cui timore è che troppi paesi puntino sulle esportazioni, contando implicitamente che il consumatore americano torni a funzionare da motore primario della crescita globale. Una tale situazione creerebbe due rischi opposti. Il primo è che se i consumatori americani dovessero invece cominciare a risparmiare più del previsto, l’economia americana potrebbe stentare a riprendersi in maniera convincente. Il secondo è che se i consumatori americani invece tornassero a spendere generosamente, vedremmo un ripresentarsi di quegli stessi squilibri macroeconomici globali che tanto hanno contribuito a scatenare la crisi finanziaria. E se si parla di squilibri commerciali e di movimenti dei tassi di cambio, l’attenzione inevitabilmente si rivolge subito alla Cina. Questa volta la Cina ha deciso di giocare d’anticipo: prima del G20 di Toronto, ha annunciato l’intenzione di permettere una maggiore flessibilità del tasso di cambio, pur nel contesto dell’attuale regime di banda di fluttuazione. La mossa cinese è stata molto ben calibrata sotto diversi punti di vista. Primo, l’annuncio ha colto in contropiede i partner del G20 che probabilmente si preparavano ad esercitare maggiore pressione su Pechino proprio riguardo alla questione del tasso di cambio: infatti, la parte principale del comunicato diffuso al termine del vertice non ne ha fatto menzione. Secondo, la Cina ha colto l’occasione per sottolineare l’importante contributo già dato alla ripresa globale e alla stabilità finanziaria internazionale. Pechino ha ricordato che lo yuan era rimasto solidamente ancorato al dollaro durante il periodo in cui quasi tutte le altre valute si erano deprezzate, ed aveva quindi contribuito a mantenere stabilità sui mercati. Il messaggio abbastanza esplicito era che gli altri paesi non possono invocare la flessibilità del cambio dello yuan solo quando fa loro più comodo. Terzo, nel suo annuncio Pechino ha sottolineato che la decisione di permettere una maggiore flessibilità del cambio era giustificata dal consolidamento della ripresa economica cinese. Questo segnale di fiducia, che dovrebbe anche rassicurare i mercati, serve a ricordare che la Cina ha fatto da motore di traino in questa delicata fase della ripresa economica mondiale. Infine, la Cina ha rimarcato che il suo avanzo di partite correnti si sta già riducendo, e dunque non ci sono le condizioni per attendersi un forte apprezzamento dello yuan. A conferma di quest’ultimo punto, le autorità cinesi hanno mantenuto il tasso di cambio pressoché immutato nei giorni seguenti all’annuncio. A giudicare dal comunicato rilasciato dal G20 a Toronto, si direbbe che la Cina abbia raggiunto l’obiettivo prefissato, vale a dire quello di evitare ulteriori pressioni internazionali per una rivalutazione dello yuan, spostando invece l’attenzione sul dibattito di politica fiscale dove il contrasto più forte ed evidente è tra Stati Uniti ed Europa – Germania in particolare. Tale lettura, pero’, è probabilmente troppo superficiale: non può sfuggire il fatto che promettere maggior flessibilità nel cambio e al tempo stesso dire che non c’è motivo perché la valuta debba apprezzarsi è un po’ come volere “la botte piena e la moglie ubriaca”. Al momento, nessuno ha interesse ad intensificare le tensioni internazionali, e agli Stati Uniti in particolare conviene concedere alla Cina il beneficio del dubbio e vedere se nei prossimi mesi ci sarà un apprezzamento significativo dello yuan. Non c’è dubbio che la Cina abbia dato e stia dando un contributo importante all’economia globale, e questa continua a giocare un ruolo strategico come compratore di titoli del debito pubblico americano. Ma il beneficio del dubbio non durerà a lungo, e c’è un forte rischio che i nodi vengano allora al pettine. Si sta delineando il pericolo sempre più concreto di politiche di svalutazione competitiva (“beggar-thy-neighbor”) sul mercato dei cambi, col rischio che gli squilibri macroeconomici globali si ripresentino con la stessa intensità degli anni precedenti la crisi finanziaria. Di fronte a queste prospettive, il recente allentamento della cooperazione globale al massimo livello politico è un trend molto preoccupante che deve essere invertito il più rapidamente possibile, partendo da un dialogo più stretto e costruttivo tra Stati Uniti e Cina.

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