Se tutte le innovazioni sorte negli ultimi anni nel campo dell’Information & Communication Technology, annunciate come “rivoluzionarie” o “dirompenti”, fossero state tali, le società più avanzate avrebbero stravolto totalmente l’informazione, il giornalismo, i media. Il tema big data non fa eccezione: molti esperti di statistica lavorano con algoritmi che per i profani sono simili a formule magiche ed enormi dataset-pietre filosofali. Alcuni sostengono così di poter distillare Verità e Conoscenza e di poter soppiantare il “vecchio giornalismo” (che peraltro non ha mai avuto la pretesa di un monopolio di questo tipo).
“Nell’era dell’informazione, la statistica è il nuovo giornalismo. Come una volta guardavamo le stelle adesso osserviamo i database affinché ci rivelino nuove verità sull’universo e il nostro posto in esso”, recita la dichiarazione di intenti di Stats.org, un progetto non-profit di cui ha scritto recentemente la Columbia Journalism Review. Nato nel ’93 dalla collaborazione fra American Statistical Association, Sense About Science USA e George Mason University, ha recentemente attivato un comitato consultivo, formato da sei statistici volontari. Dai suoi albori il sito Stats.org ha cambiato pelle diverse volte, ma il pallino del suo fondatore, Robert Lichter, professore di Comunicazione a George Mason, è sempre stato quello di aiutare i giornalisti a interpretare numeri, statistiche e paper di ricerca, a fronte del poco tempo che spesso i redattori hanno a disposizione, per scrivere articoli complessi su argomenti medici e scientifici. “Se sei uno statistico non puoi fare il giornalista e viceversa”, afferma ancora il “manifesto”. Condivisibile: un’informazione di qualità, che ambisca a ottimizzare le potenzialità dei big data, oggi non può prescindere dalla convergenza di professionalità diverse e complementari, da una redazione multidisciplinare che convogli nello stesso team giornalisti, statistici ed esperti di visualizzazione dati, per realizzare un giornalismo davvero data driven.
Informazioni che prima erano affidate all’intuito dei giornalisti, alle voci raccolte per strada con penna e taccuino o a campioni limitati esaminati attraverso le metodologie classiche della ricerca sociale – come sondaggi telefonici o focus group – oggi sono ricercabili, analizzabili, estese a campioni molto più vasti. E possono essere riversate in meravigliosi grafici, che si avvicinano all’arte e che poco hanno a che fare con la presunta “freddezza dei numeri”. Insomma, i numeri parlano, raccontano storie, danno notizie e, opportunamente organizzati, diventano anche belli.
Secondo Stats.org, “la statistica è l’unico modo per rendere affidabile un nuovo empirismo”. In un momento in cui la disinformazione è pervasiva e in cui talvolta l’accuratezza viene sacrificata sull’altare della velocità, un’organizzazione che aiuti i giornalisti a fare il proprio lavoro al meglio, con il supporto di scienziati statistici, si pone uno scopo utile, innovativo e nobile. Tuttavia sarebbe bene forse mitigare i toni enfatici dei quali i big data vengono caricati (non tanto nella loro funzione descrittiva, quanto in quella predittiva) soprattutto dopo alcune cantonate. L’ultima è quella di Nate Silver in occasione delle ultime elezioni britanniche: è forse lo statistico “divulgativo” più famoso del mondo, ex sondaggista del New York Times, che ha raggiunto la fama internazionale per aver predetto il risultato delle elezioni USA 2008, 2010 e 2012, poi fondatore del sito FiveThirtyEight.com. Nelle sue previsioni pre-elettorali nel Regno Unito (dove si è votato il 7 maggio), assegnava 278 seggi ai Conservatori e 267 ai Laburisti; dopo la mezzanotte, le cifre previste erano diventate 272 contro 271. All’alba però, per la BBC, i Conservatori avevano un’aspettativa di 329 contro 233; poi, come sappiamo, per Cameron è andata ancora meglio allo spoglio delle schede, con 331 seggi conquistati.
“Certamente i campi in cui la scienza delle previsioni può esibire dei successi sono quasi delle eccezioni”: così dichiarava, in tono profetico, Silver in un’intervista del 2013. “Diffidate di chi si dice sicuro al 100% delle sue proiezioni: il mondo è un luogo troppo complicato”. Possiamo certamente dire che i limiti dei suoi stessi metodi hanno confermato, nel caso britannico, la nota di cautela del notissimo “previsore”.
I big data rappresentano certamente un vantaggio enorme per l’informazione, funzionale alla doppia natura dei mass media: servizio pubblico da un lato e industria dall’altro. Ma in che modo le newsroom possono usare al meglio i dati? Come si fa a dar senso all’enorme massa di numeri disponibile? Probabilmente per mettere a tacere il “rumore di fondo” bisogna guardare ai dati in modo semplice e porre loro una domanda chiara, delineando con precisione il problema che si vuol risolvere. I dati possono ora essere incrociati come mai prima e permettono a una testata, ad esempio, di comprendere sempre meglio gli stili di consumo del proprio pubblico e dunque di fidelizzarlo. Come insegna nei suoi prestigiosi corsi Sree Sreenivasan, Chief Digital Officer del Metropolitan Museum of Art di New York e uno dei massimi esperti mondiali di strategia dei social media, “your website is your home country and social media is your embassy”. Dunque, quando si raccolgono i dati sulla fruizione dei propri contenuti diventa cruciale osservare in che modo gli utenti interagiscono con questi, fuori dal sito e in relazione ai nostri account: se li stanno twittando, commentando sulla nostra pagina Facebook o condividendo su LinkedIn. I dati forniscono indicazioni sulle tendenze ricorrenti; più è definita la mappa delle preferenze degli utenti, migliore potrà essere il servizio fornito.
In occasione di grandi eventi, è possibile e utile tracciare le dinamiche che hanno creato traffico sul sito ed engagement sui social, per capire, ed eventualmente replicare, il modello che ha condotto a quel risultato. Naturalmente ciò vale tanto sul web quanto per i broadcaster: se attraverso la tv digitale terrestre la raccolta dei dati risulta relativamente limitata, la tv online consente una visione più completa e precisa del percorso compiuto dall’utente.
Difficile dire se il fenomeno big data rappresenti una vera e propria rivoluzione per l’informazione o se sia, esso stesso, il “nuovo giornalismo”. Intanto Stats.org pesca nel pantheon dell’informazione per sancire la propria appartenenza, a pieno titolo, a quel mondo, e affida la beatificazione della statistica alle parole di Joseph Pulitzer, che nel 1904 scriveva nella North American Review: “Vuoi che la statistica ti dica la verità. Puoi trovarla lì, se sai come cercarla, insieme con il romanticismo, l’interesse umano, lo humour e rivelazioni affascinanti. I giornalisti devono sapere come trovare tutte queste cose – la verità, di certo, per prima”.