Gli USA e lo smart power energetico

Con la “rivoluzione energetica” in corso – termine forse ottimistico, dalla prospettiva americana – si intravede comunque il nucleo di una vera grand strategy per gli ultimi due anni della presidenza Obama. In estrema sintesi, la disponibilità sui mercati di nuova produzione statunitense consente di calmierare i prezzi di gas e petrolio ed esercitare una forte pressione sugli altri maggiori produttori. E ciò si traduce in uno strumento di notevole influenza politico-strategica.

Si tratta solo in parte di una scelta politica deliberata, almeno in origine: in effetti, una serie di fattori ha reso possibile sfruttare a costi vantaggiosi tecnologie già note, in particolare nel settore dello shale gas. E Washington ne sta approfittando anche sul piano della politica estera – oltre che su quello economico come “sovvenzione gratis” alla competitività americana e in parte ai consumi. Quali che siano le cause del fenomeno, la Casa Bianca è ora in grado di ridurre in misura massiccia il bilancio statale di Paesi come Russia, Iran, Venezuela, riducendo intanto il peso negoziale dei Paesi del Golfo, a cominciare dall’Arabia Saudita. Questo dato è importante per gli equilibri globali almeno quanto il rating delle agenzie per le economie dell’euro. La tabella sulla sostenibilità dei bilanci in rapporto al prezzo del barile è una sorta di indice anche del peso geopolitico.

In modo simultaneo e quasi simmetrico, la spinta verso il basso sui prezzi avvantaggia molti degli alleati e partner dell’America, in Europa ma anche in Medio Oriente (si pensi all’Egitto), fortemente dipendenti dalle importazioni energetiche.

È vero che il forte calo dei prezzi causa anche alcuni problemi per i produttori americani (dati i minori profitti), ma per ora lo stesso settore dello shale gas, grazie anche alla crescente efficienza degli impianti, sembra reggere anche con il petrolio a circa $60 al barile. È altrettanto vero che l’Arabia Saudita rimane ad oggi lo swing producer decisivo; e Riyadh ha per ora scelto di non contrastare frontalmente gli Stati Uniti ma piuttosto di sostenere i costi del petrolio a (relativamente) buon mercato pur di frenare lo sviluppo delle fonti alternative. I sauditi sembrano, insomma, ancora in grado di gestire con la solita cautela i propri interessi in modo compatibile con quelli del maggiore alleato (e protettore). 

Pur in questo quadro non stabile e non totalmente favorevole agli interessi americani, si può fare una prima considerazione: quella che potremmo meglio definire come l’embrione di una rivoluzione energetica viene comunque utilizzata da Washington come vero “smart power”.

Il concetto di smart power è molto caro all’amministrazione Obama fin dai suoi esordi. È stato un modo, magari un po’ semplicistico, per presentare una svolta intelligente e pragmatica nell’impiego della potenza americana. L’idea è di puntare a una sintesi di soft power e hard power (non facendosi accusare da destra di essere soft on security, né da sinistra di essere una replica annacquata di George W. Bush). Normalmente, quella sintesi implica dei difficili trade-off – si sacrifica un interesse economico o diplomatico (soft) per obiettivi di sicurezza, oppure si rinuncia a una quota di sicurezza o all’uso dello strumento coercitivo (hard) per obiettivi economici o diplomatici, magari di più lungo periodo. La peculiarità della situazione attuale è che è win-win, cioè consente di aumentare la competitività economica americana mentre si esercita pressione diplomatica e si riduce la libertà d’azione di avversari o partner problematici: questo rende davvero l’arma energetica uno strumento potenzialmente smart.

Le condizioni dei mercati sono piuttosto volatili e possono cambiare rapidamente, ma alcuni fattori di fondo sembrano comunque fornire agli Stati Uniti una buona base a cui ancorare una politica estera aggiornata agli sviluppi recenti – tensioni persistenti con la Russia, ulteriore incertezza sui negoziati nucleari con l’Iran, contrasto attivo all’ISIS soprattutto in Siria e Iraq. La ricerca di un mix energetico più diversificato e di una minore dipendenza occidentale dal cartello dei maggiori produttori di risorse fossili (anche al di là del relativo declino dell’OPEC) restano per i prossimi anni fondamentali interessi americani ed europei. In tal senso, l’ultimo biennio di Obama potrà sfruttare al meglio lo smart power energetico, e forse lasciare un’eredità preziosa al successore dal gennaio 2017: una grand strategy nella quale gli Stati Uniti recuperano una maggiore capacità di influenza diretta su aree e attori nevralgici (non solo di tipo statuale).

 

 

 

 

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