A otto mesi dalla caduta di Hosni Mubarak, per la transizione egiziana sembra essere arrivato il momento dello strappo con i militari. Dopo mesi di manifestazioni, l’escalation di violenza ha toccato il suo apice domenica 9 ottobre, quando nelle strade del Cairo si è svolta la manifestazione più violenta dal giorno della deposizione del vecchio raìs. Una trentina i morti, più di trecento i feriti degli scontri che hanno coinvolto cairoti che protestavano contro l’attacco subito da una chiesa copta.
A dare fuoco a questo luogo di culto cristiano ad Edfu, un villaggio dell’alto Egitto nella provincia di Assuan, sono stati alcuni estremisti salafiti, appartenenti a una corrente di ispirazione wahabita che predica una rigida interpretazione dell’Islam. A scatenare il loro risentimento è stato il contenzioso sulla chiesa di S. Giorgio, una costruzione in piedi dal 1940 che aveva bisogno di essere ristrutturata. In passato, spettava al presidente della Repubblica autorizzare la costruzione di nuove chiese e i lavori di manutenzione. L’attuale ordinamento egiziano prevede invece che i responsabili della chiesa chiedano l’autorizzazione per i lavori alle autorità locali responsabili, ovvero i governatori delle provincie. Questi rispondono al governo centrale – dunque al Consiglio Supremo delle Forze Armate.
Secondo quanto scriveva il 4 ottobre Alaa al-Aswany (noto anche come autore del bestseller “Palazzo Yacubian”), sulla vicenda ci sarebbe stato un incontro informale tra le forze di sicurezza locali ed esponenti salafiti che si opponevano alla ristrutturazione. Questi ultimi avrebbero chiesto ai militari di imporre ai copti alcuni condizioni per la concessione della licenza che doveva autorizzare i lavori: nella chiesa non si potevano posizionare altoparlanti, costruire cupole ed esporre croci. Accettate queste condizioni, la polizia avrebbe concesso il permesso di ristrutturazione. Nonostante l’assenso dei militari, alcuni predicatori wahabiti della zona non si sono placati e hanno incitato i fedeli musulmani ad opporsi comunque alla ristrutturazione, spingendoli a prendere d’assalto la chiesa. Gli attacchi sono andati avanti per ore, senza che militari e polizia intervenissero.
Questi eventi hanno riportato alla luce il lungo contenzioso sulla questione della libertà di costruire chiese: il problema risale all’epoca ottomana, quando venne emanata una legge, ufficialmente tutt’ora in vigore, per limitare la costruzione delle chiese. L’atteggiamento delle forze dell’ordine in questo caso recente si è dimostrato simile a quello del vecchio regime, che si è servito della questione settaria per garantirsi il potere: Mubarak brandiva lo spauracchio dell’Islam politico per conservare il consenso dei copti ai quali prometteva protezione e, in alcuni casi, limitata partecipazione al potere; dall’altra faceva ben poco per contenere gli estremisti. L’obiettivo era chiaramente di presentarsi come l’unico soggetto in grado di garantire sicurezza e stabilità.
Ma gli eventi del 9 ottobre non possono essere ridotti a una questione settaria. I copti, come gli altri cristiani d’Oriente, non fanno parte di una setta, ma sono parte integrante della società egiziana, della sua cultura, della sua economia e anche della sua storia più antica. I copti e i musulmani che hanno partecipato alla dimostrazione hanno raccontato che a scontrarsi sono stati manifestanti da un lato e militari e baltaghia (mercenari armati fino ai denti) dall’altra.
Partendo da diversi quartieri, i manifestanti erano diretti a Maspero, quartiere che ospita la sede della televisione di stato. Alcuni baltaghia avrebbero attaccato i fedeli copti già durante il corteo, ma il peggio è avvenuto a Maspero, dove blindati dell’esercito hanno investito i manifestanti che sono stati colpiti anche con armi da fuoco. Mentre i cortei avanzavano, la televisione di stato ha lanciato appelli chiedendo ai cittadini di difendere la nazione da armate di copti che stavano mettendo in pericolo la stabilità del paese. Alcuni blogger hanno anche denunciato l’irruzione di militari negli uffici di emittenti televisive locali che stavano cercando di mandare in onda video che mostravano cosa stava realmente avvenendo all’interno dei cortei.
A questo punto il quadro politico-sociale nel paese potrebbe davvero cambiare: la leadership militare ha di fatto perso credibilità, non solo tra i copti ma anche tra i musulmani che non sembrano più disposti a farsi manipolare.
Quanti nella cattedrale di Abbassiya hanno dato l’ultimo saluto alle vittime degli scontri hanno intonato ininterrottamente un solo slogan: “La gente vuole la caduta del murshid” (ovvero il capo del Consiglio Supremo delle Forze Armate, il generale Mohammed Hussein al-Tantawi). Alcuni dati allarmanti parlano di una fuga di massa di cattolici, ma intanto rappresentanti copti sono presenti in tutti i partiti nati dopo la caduta di Mubarak – anche in Libertà e Giustizia, il partito nato dalla Fratellanza musulmana, il cui vicepresidente, Rafiq Habib, è un accademico copto.
“Il 9 ottobre – ha scritto un editoriale di Al-Masry al-Yaoum – è stata la prima volta che l’esercito ha attaccato una manifestazione di cristiani, la prima volta che i militari sono stati implicati nell’uccisione dei manifestanti e la prima volta che il malcontento nato da una crisi settaria è degenerato in un più ampio malcontento contro il regime militare”. E a mostrare che uno strappo con i militari si è ormai compiuto è stata la dichiarazione rilasciata da tredici nuovi partiti egiziani: accusando i militari di aver fallito nell’amministrare la transizione, hanno chiesto il passaggio dei poteri a un consiglio di transizione composto di civili.