C’è almeno un elemento straordinario nella rielezione di Barack Obama: nessun presidente dai tempi di Franklin Delano Roosevelt era mai stato riconfermato in presenza di un tasso di disoccupazione tanto elevato (7,9%). Laddove molti leader europei non hanno superato la prova della rielezione, Obama è riuscito riscuotere tra l’elettorato americano quel consenso che in Europa si è sgretolato con l’imperversare della crisi.
L’analisi del voto americano offre un ulteriore spunto di riflessione, perché pur avendo conquistato più grandi elettori ed anche una maggiore percentuale nel voto popolare, Obama dovrà comunque tenere in considerazione che il 47,8% degli americani ha votato per il suo sfidante, Mitt Romney e che la maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti è stata riconfermata, segnali sintomatici di un paese sempre più spaccato in due.
La principale priorità della nuova amministrazione Obama sarà dunque quella di superare la forte contrapposizione che contraddistingue i due grandi schieramenti politici americani, in primis sul fiscal cliff, ovvero il “precipizio di bilancio” nel quale gli Stati Uniti potrebbero scivolare qualora il Congresso non trovasse un nuovo accordo entro la fine dell’anno. Il prossimo gennaio 2013, infatti, in mancanza di un accordo al Congresso, scadranno gli sgravi fiscali introdotti dalla precedente amministrazione Bush e al contempo scatteranno una serie di tagli automatici alla spesa pubblica. Se il fiscal cliff non sarà evitato, i cittadini americani saranno colpiti da $532 miliardi di aumenti delle tasse e $136 di tagli alla spesa, con una contrazione del PIL pari al 4%.
Gli aspetti più problematici per pervenire all’accordo saranno due. Il primo riguarda la pressione fiscale. I Repubblicani sono disposti ad accettare l’eliminazione di alcuni sgravi fiscali, salvo lasciare le aliquote inalterate per le fasce più ricche della popolazione. Obama invece ha già detto di volere tagliare le tasse per le fasce medio-basse e aumentarle per la fascia più ricca del paese. I ricavi raccolti dai redditi più alti contribuirebbero a colmare il deficit senza drastici tagli alla spesa pubblica. Il secondo nodo su cui Repubblicani e Democratici dovranno confrontarsi riguarda la riduzione del debito. Entrambi vogliono ridurre il debito attraverso una riduzione del deficit in dieci anni. Ma mentre i Repubblicani mirano a raggiungere quest’obiettivo esclusivamente attraverso tagli di spesa, per i Democratici la riduzione del deficit si articolerebbe principalmente in provvedimenti riguardanti $1.780 miliardi di tagli alla spesa, $850 miliardi di risparmi dovuti alla fine dell’impegno in Iraq e Afghanistan, $800 miliardi di riduzione degli interessi sul debito ed $1.910 miliardi di abolizione degli sgravi fiscali per i più ricchi.
Sul debito, la proposta formulata dalla Commissione bipartisan, co-presieduta dagli ex senatori Alan Simpson e Erskine Bowles, potrebbe essere un buon punto di partenza in vista delle intense negoziazioni che terranno impegnati i due poli politici americani. Le raccomandazioni formulate dalla Commissione prevedono, infatti, una combinazione di minori spese e maggiori entrate. E poiché nella proposta Simpson-Bowles la riduzione del deficit di 4 mila miliardi è articolata per 3/4 da tagli alla spesa e per 1/4 da aumenti delle tasse, le somiglianze tra le idee repubblicane e democratiche possono trovare nella proposta bipartisan un punto d’incontro.
È evidente che la Simpson-Bowles si presenta come una ricetta amara. Si tratta, infatti, di proposte impopolari ma anche assai coraggiose per risanare il bilancio federale: si pensi all’abolizione dei sussidi all’agricoltura e all’aumento dell’età pensionabile. Lavorare su una proposta a cui sia Repubblicani sia Democratici hanno contribuito sarebbe più facile per ambedue gli schieramenti, anche se il risultato non è certo garantito e il rischio di uno stallo è concreto.
Stanti queste difficoltà, è cruciale trovare un terreno comune di mediazione, perché il pericolo che corre l’economia americana è quello di una nuova recessione – la ragione che ha spinto recentemente sia Fitch sia Moody’s a tagliare l’outlook del paese, minacciando seriamente ulteriori bocciature. È evidente che una recessione della prima economia mondiale metterebbe a durissima prova anche le economie di mezzo mondo. Non a caso negli Stati Uniti le aziende si stanno preparando al peggio, riducendo investimenti, ma anche ordini e assunzioni. Se non bastasse, secondo il Dipartimento del Tesoro, gli Stati Uniti sforeranno con molta probabilità quel tetto al debito federale di $16.400 miliardi che dopo lunghe trattative era stato aumentato nell’estate del 2011. Poiché il governo americano per indebitarsi ulteriormente necessita dell’autorizzazione del Congresso, è evidente che in previsione dell’avvicinamento al tetto al debito sarà necessario un nuovo accordo. Come per il fiscal cliff anche per il tetto al debito, il muro contro muro fra Repubblicani e Democratici non sarebbe di alcuna utilità per il paese.
Oltre che sul fiscal cliff e sul consolidamento dei saldi di bilancio, i due partiti americani dovranno trovare un accordo anche sulla riduzione dei costi dell’assistenza sanitaria. L’Obamacare non può che essere un primo passo per riformare il sistema sanitario degli Stati Uniti. Ciò che ancora risulta necessario è una drastica riduzione dei costi. Secondo l’OCSE, la spesa sanitaria degli Stati Uniti equivale ad un impressionante 17,5% del PIL. Valore quasi doppio rispetto a quanto registrato dalla media dei paesi OCSE. Poiché a spese superiori non coincidono risultati migliori (ad esempio, l’aspettativa di vita degli Stati Uniti è ancora al di sotto della media OCSE) è chiaro come il sistema sanitario americano presenti inefficienze e sprechi. Questo significa che vi sono spazi per migliorare il servizio diminuendo la spesa. Anche in questo caso, è necessario che i due schieramenti politici superino le reciproche contrapposizioni.
Nel 2008 Obama ha dovuto affrontare una delle più complesse crisi finanziare di questo secolo. Ha ottenuto una storica riforma sanitaria e una legge sul sistema finanziario. È riuscito a far approvare imponenti stimoli all’economia, e ha salvato banche ed imprese automobilistiche per evitare il crollo del sistema economico americano. Tuttavia dal 2008 a oggi il numero dei disoccupati è cresciuto di parecchi milioni, il debito potrebbe raggiungere $16,4 trilioni di dollari, i Democratici hanno perso la maggioranza alla Camera e il fiscal cliff rischia di far scivolare l’economia in recessione. L’eredità della presidenza Obama dipende a questo punto dalla capacità di superare le contrapposizioni e creare uno spirito bipartisan almeno su alcune questioni urgenti ed essenziali: se il sistema politico americano si rivelasse realmente disfunzionale rispetto alle sfide di questi anni – come molti lamentano da tempo – non ci sarebbe alcuna “vittoria” né per i Democratici né per i Repubblicani.