Se c’era una notizia annunciata, nei mesi scorsi, è che questa sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sarebbe stata dominata dalla richiesta palestinese di vedersi riconosciuto uno Stato. Anche l’esito è annunciato: un nuovo Stato sovrano non nascerà, dal momento che solo il Consiglio di Sicurezza può prendere una decisione del genere. E non la prenderà: non solo perché il veto americano è scontato ma perché ci vorrà comunque del tempo. Con la richiesta ufficiale del presidente Abbas, si apre infatti una procedura. Alla fine della quale, la Palestina potrebbe invece essere riconosciuta dall’Assemblea generale come “permanent observer state”, senza diritto di voto. È la cosiddetta “opzione vaticana”, che segnerebbe comunque un upgrading della posizione attuale dell’entità palestinese (“permanent observer entity”). Abu Mazen otterrebbe così la parola “Stato”, anche se il progresso sarebbe più simbolico che altro.
Il punto da cui partire, quindi, è che la richiesta palestinese è anzitutto un’iniziativa diplomatica volta ad aumentare le capacità di pressione negoziali dell’ANP. Ma come tutte le iniziative diplomatiche, cambia anche un contesto già molto delicato.
Il contesto è segnato anzitutto da una situazione di grande difficoltà di Israele, che ha perso in questi mesi l’alleanza privilegiata con la Turchia e il rapporto solido che aveva con l’Egitto di Mubarak. Il governo di Netanyahu ha compiuto una serie di errori evidenti, nei rapporti con Ankara e con la politica degli insediamenti. Ma non c’è dubbio che la svolta araba del 2011 abbia oggettivamente peggiorato la situazione strategica per lo Stato ebraico: per la prima volta da decenni, il rischio di isolamento di Israele non è immaginato ma reale.
Da parte loro, i palestinesi hanno compiuto progressi nella West Bank, con la politica di Salam Fayyad e hanno capito come giocare un po’ meglio le proprie carte: l’iniziativa all’ONU lo dimostra. Ma non sono riusciti a ricomporre la spaccatura con Hamas. Dopo la finta unità di queste settimane, utile per la rivendicazione all’ONU, le fratture interne fra West Bank e Gaza torneranno a manifestarsi. Finché Hamas avrà il controllo assoluto di Gaza, uno Stato palestinese unitario non sarà credibile. E in condizioni del genere, non è affatto certo che la richiesta palestinese incentivi il negoziato bilaterale – come affermano invece i suoi sostenitori.
Quanto agli attori esterni, Washington sta perdendo la centralità del passato sulla scena mediorientale. Barack Obama, sul negoziato israelo-palestinese, si è esposto troppo e ha ottenuto troppo poco, quasi nulla. E oggi non può che vedere il problema essenzialmente in termini elettorali. Nel frattempo, gli europei rivendicano un ruolo più rilevante, a cominciare da Nicolas Sarkozy, galvanizzato dalle vicende di Libia (una vittoria dichiarata ma non ancora conseguita del tutto). La verità, tuttavia, è che l’Europa si presenta ancora una volta divisa a New York: l’unica posizione unitaria possibile sarebbe l’astensione – forse il male minore.
Nei vuoti occidentali si inserisce la Cina, con un appoggio gratuito alle rivendicazioni palestinesi che serve in realtà a consolidare la propria presenza in Medio Oriente; e si inseriscono le potenze regionali in crescita, dalla Turchia all’Arabia Saudita.
Se lo sfondo è questo, una vittoria simbolica di Abu Mazen all’ONU avrà l’effetto di rilanciare il negoziato bilaterale o farà precipitare uno showdown?
Questo è il punto vero da discutere. L’obiettivo ultimo della creazione di uno Stato palestinese sovrano è accettato in linea di principio da tutti gli attori principali, incluso Israele – anche se, naturalmente, con i noti punti controversi che riguardano i confini e la questione di Gerusalemme. Il problema è capire se questa specifica via – una scelta unilaterale avallata dalle Nazioni Unite – sia in grado di far progredire verso un risultato che potrà essere conseguito solo attraverso negoziati con Israele.
L’argomento ottimistico è che la “terza via” alla Palestina – dopo la fase della lotta armata e quella del negoziato “open-ended” promosso da Washington – possa riuscire. Perché, così continua la tesi, il riconoscimento della comunità internazionale premia gli sforzi compiuti in questi anni da Salam Fayyad per costruire i presupposti interni, economici anzitutto, dell’indipendenza. E potrebbe perfino convenire a Israele, liberandolo da un peso.
Può darsi: ma questa tesi sottovaluta tre problemi fondamentali.
Primo: il riconoscimento della Palestina, per quanto simbolico, potrà essere usato da Hamas e dai suoi alleati regionali per legittimare le proprie posizioni ed azioni contro Israele.
Secondo: l’Autorità palestinese chiede il riconoscimento della propria sovranità su un territorio che non è in grado di controllare del tutto. I presupposti dello statehood, in altri termini, sono troppo fragili. E la situazione potrebbe deteriorarsi rapidamente se Israele considerasse davvero l’ANP responsabile di eventuali azioni da parte di Hamas.
Terzo: è difficile immaginare che uno Stato di Israele che si senta “sconfitto” dalla comunità internazionale accetti di negoziare tempestivamente con i palestinesi sulla base di “garanzie” che sarebbero comunque fornite soprattutto da Europa e Stati Uniti (stante che il mondo arabo, a maggior ragione dopo le rivolte arabe, non gode certo della fiducia degli israeliani).
Sono tre punti importanti, che rientrano tutti in un problema più generale: per quanto la vicenda dello Stato palestinese abbia una storia specifica alle spalle, il riconoscimento di Stati virtuali, divisi all’interno e con confini contestati, si è spesso dimostrato un errore da parte della diplomazia internazionale.
La nostra conclusione è quindi assai meno ottimistica. Nonostante le responsabilità negative del governo Netanyahu, il calcolo strategico rispetto al futuro Stato palestinese non può essere influenzato in misura determinante dalla frustrazione verso l’atteggiamento di Israele. Su queste basi, infatti, l’alternativa più probabile a una soluzione negoziata fra Israele e i palestinesi non è la nascita unilaterale di uno Stato palestinese ma un nuovo conflitto, con ramificazioni regionali più rischiose che in passato. Per evitare questo scenario, la carta del riconoscimento via ONU di uno Stato palestinese può essere agitata; ma non giocata fino in fondo. Perché una volta che sarà giocata, sarà anche troppo tardi per un accordo negoziato.