AIIB: il multilateralismo che piace a Pechino

L’adesione in massa alla Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB), la cui creazione è stata proposta da Pechino ed è osteggiata da Washington, costituisce un ulteriore indice dei cambiamenti in corso nei rapporti di forza tra le due maggiori potenze mondiali. Fornisce inoltre nuovi argomenti all’ipotesi che la duttilità della politica del Presidente Xi Jinping risulti più efficace dell’approccio americano. In particolare il nuovo istituto rischia di rappresentare una sfida alla strategia obamiana del Pivot to Asia che, sbilanciandosi verso la “sicurezza”, sguarnisce a causa dello scontro tra esecutivo e Congresso l’indispensabile lato della cooperazione economica. Su questo sfondo, l’atteggiamento americano finisce col fare dell’AIIB un cuneo infilato nelle già dubbie speranze di successo della Trans Pacific Partnership (TPP). I negoziati sul TPP continuano a trascinarsi stancamente – quelli bilaterali USA-Giappone sono ripresi nei giorni scorsi – sebbene il Ministro della Difesa americano Ashton Carter abbia definito l’intesa transpacifica uno strumento più utile di una portaerei per contenere l’espansionismo cinese.

La AIIB conferma che Pechino si sente sufficientemente forte da sapere gestire il multilateralismo. E questa volta non si tratta di un multilateralismo limitato da precisi paletti, che ha portato ad esempio alla nascita dell’associazione ASEAN+3 (Sud Est asiatico più Cina, Giappone e Corea del Sud) o della banca dei BRICS. “Diamo il benvenuto a tutti coloro che vogliono partecipare”, ha precisato un portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino. E le 48 adesioni raccolte, compresi i maggiori Paesi europei, lo confermano.

I cinesi aprono al mondo intero, ostentando disponibilità a negoziare anche con interlocutori occidentali. Pechino ha fiducia nel suo soft power e sceglie il terreno che le è più congeniale per impostare un nuovo tipo di competizione con gli Stati Uniti, una sorta di “nuova guerra fredda”. La guerra fredda (USA-URSS) dell’epoca del bipolarismo, infatti, non permetteva deroghe alla fedeltà al blocco di appartenenza. La base era politica; l’economia seguiva. Ora anche le alleanze diventano soggetti liquidi. Se militarmente tengono, lasciano ampio spazio a defezioni su altri terreni. La geoeconomia tende a schiacciare la geopolitica e la Cina cavalca questo trend. Non rinuncia all’uso calibrato della forza (Mar Cinese Meridionale). Ma lancia messaggi accattivanti, primo tra tutti la “nuova Via della Seta”, che è strettamente connessa alla creazione dell’AIIB.

La Via della Seta è un progetto nato e cresciuto in Cina – secondo alcuni l’unico antidoto alla crisi che incombe sul gigante asiatico dopo la lunga fase di crescita tumultuosa – indispensabile per proiettare i commerci cinesi verso Ovest, sfruttare l’enorme capacità produttiva in settori come acciaio e cemento, deviare verso l’estero la manodopera in eccesso, e infine istituire lungo gli oceani basi commerciali e militari. La Via della Seta attira però anche capitali europei e petrodollari. Inoltre garantisce crescita e modernità ai Paesi, per lo più in via di sviluppo, che attraversa. Appare dunque, nel breve periodo almeno, una credibile soluzione win-win.

In questa ottica la nuova banca regionale non avrebbe lo scopo di indebolire il sistema finanziario esistente né di creare un nuovo ordine trainato dalla Cina, bensì di raccogliere i capitali necessari a facilitare la nascita del corridoio che dovrebbe portare la Cina fino in Europa e in Africa. Se è così, potrebbe collaborare con l’Asian Development Bank (ADB), controllata dal Giappone, o con la Banca Mondiale, i due maggiori collettori di investimenti per l’Asia. Né per la Cina sarebbe utile imporre condizioni che allontanassero europei e australiani, entrati a far parte dei “Paesi fondatori” ma restii a farsi imporre, nella fase negoziale che si aprirà nelle prossime settimane, regole lontane dagli standard consueti e invise agli americani. La Cina sembra anche intenzionata a rifiutare l’eventuale partecipazione della Corea del Nord, in nome dell’isolamento di Pyongyang voluto dagli occidentali e dunque con un approccio flessibile. Auspica anche la partecipazione di capitali privati, che contribuirebbero a dare un carattere apolitico alla banca.

Se quello che conta per Xi Jinping sono i dividendi a lunga scadenza – a Via della Seta ultimata grazie ai capitali altrui – e una legittimazione internazionale attraverso la condivisione di responsabilità, è prevedibile un atteggiamento conciliante di Pechino a livello negoziale, e forse perfino una decisa frenata alla politica di aggressive iniziative bilaterali perseguita nel decennio passato. In ogni caso, più che una risposta al rifiuto del Congresso di Washington di concedere alla Cina più potere (ovvero più quote) nel FMI, l’AIIB sembra un modo diverso di utilizzare gli enormi surplus accumulati. Dovrebbe evitare i contraccolpi negativi, sperimentati per esempio in Zambia e Myanmar, degli aiuti (quasi 700 miliardi nell’ultimo decennio) mirati a sostenere con una sorta di ricatto gli interventi all’estero delle proprie imprese di Stato. D’altra parte il decollo dell’AIIB è di per sé un successo. Non sorprende la partecipazione di tutti quei Paesi che non hanno perdonato al FMI le regole imposte dopo la crisi finanziaria degli anni Novanta. Era meno scontato invece il sì dell’India, che studia da grande potenza alternativa alla Cina sebbene già faccia parte della Banca dei BRICS. Ancora più importante per Pechino è l’ingresso di Filippine e Vietnam, i due Paesi dell’ASEAN che si sono affidati a Stati Uniti e Giappone per tenere testa alle pretese territoriali cinesi.  Significativa, seppure per ora respinta da Pechino, è infine la richiesta di adesione di Taiwan. Il Presidente Ma Ying-jeou, da anni promotore della cooperazione con la madrepatria, ha giustificato la sua mossa, contestata dagli indipendentisti, affermando che l’AIIB è uno strumento per favorire l’integrazione di Taipei nel contesto regionale e in altri istituti multinazionali. Pechino ha risposto ponendo sul tavolo il consueto problema del nome: non deve sembrare che Taiwan sia uno Stato indipendente.

Non turba i cinesi la freddezza del Giappone. Inevitabile cautela in attesa che si materializzino le indispensabili garanzie di trasparenza nello screening dei progetti, l’ha definita il Ministro delle Finanze nipponico Aso Taro. Il Giappone piuttosto – come il Premier Abe Shinzo ha detto chiaramente – ha preferito dare la priorità alla fedeltà agli USA e restare fuori dall’AIIB. Per i più accaniti oppositori di Abe, dall’estrema destra come da sinistra, un grave errore suggerito dall’aprioristica sudditanza del Primo Ministro nei confronti di Washington. Ma forse si tratta soprattutto di una convergenza oggettiva che porta a identificare nella Cina il principale pericolo, poco importa se a livelli e per ragioni diverse.

In ogni caso, la linea di fondo di Abe, se non altro per il suo carattere revisionista, non coincide con quella del Presidente Obama. Washington persegue la difesa dello status quo (l’ordine nato alla fine del secondo conflitto mondiale e consolidatosi dopo la guerra fredda), identificato con la stabilità, e considera ogni mutamento una minaccia alla sicurezza. Tokyo al contrario si inserisce nel mutamento, attraverso la ricerca di una “normalità” finora autonegata, che impone di avere un livello di autonoma assertività militare in sintonia con la forza della propria economia. L’allineamento del Giappone agli Stati Uniti è pertanto più apparente – o contingente – che reale. Non è escluso che da oggi a giugno, quando il Giappone dirà la sua ultima parola sull’AIIB, maturi l’opzione dell’adesione. Il rapporto redatto dai Ministeri delle Finanze e degli Esteri diffuso in questi giorni, sulla base del quale Abe ha deciso di ignorare la deadline del 31 marzo dettata da Pechino, non esclude un sì all’istituto finanziario in tempi più lunghi. Propone anche un tetto massimo di 1,5 miliardi di dollari per entrarvi: cifra piccola rispetto a un plafond inizialmente fissato a 50 miliardi (il 75% dei quali obbligatoriamente di provenienza asiatica), ma che rappresenterebbe il maggiore contributo dopo quello preponderante della Cina. La lobby industriale d’altra parte preme su Abe e poco si cura della fedeltà a Washington. “La domanda di infrastrutture in Asia continuerà a crescere – ha detto Sakakibara Sadayuki, Presidente della Confindustria giapponese – e dunque occorre garantire che le imprese nipponiche non soffrano di una posizione sfavorevole”.

L’adesione all’AIIB permetterebbe a Tokyo di partecipare al negoziato sullo statuto della Banca e in questo contesto di ridisegnare ruolo e specificità dell’ADB. Inoltre, sul piano politico, rappresenterebbe un segnale di appeasement verso Pechino, peraltro non l’unico in questa fase, ed eviterebbe un nuovo fattore di contrasto con Seul, che ha subito aderito all’AIIB e che coltiva senza timori una stretta partnership con Pechino non priva di risvolti antigiapponesi. Ma entrambe le opzioni restano aperte: uno scenario in cui il Giappone resti sul carro di Washington, meglio se da solo, e il sospetto che la nuova banca regionale aiuti la Cina a rafforzare la sua influenza in Asia, costituiscono un contrappeso cui Abe è certo sensibile.

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