Gli attacchi coordinati che hanno colpito Kabul (edifici delle istituzioni, ambasciate e installazioni militari), e altre località dell’Afghanistan, ci ricordano amaramente che non basta voler chiudere una guerra per esserne davvero fuori.
Non sorprende che l’Afghanistan sia soggetto a improvvise fiammate di violenza, visto che nessuno ha mai potuto affermare che il paese fosse complessivamente sotto controllo: non lo è da parte della coalizione internazionale a guida NATO (ISAF), e tantomeno lo è da parte del governo centrale. Il segnale molto preoccupante che viene dalla nuova battaglia di Kabul è però che la capitale stessa è terreno di scontro aperto, mentre si sperava che almeno in quell’area del paese le forze del presidente Karzai fossero in grado di assicurare una sostanziale stabilità. Il momento in cui avviene l’attacco è delicato, anche visto che tra poco più di un mese si terrà il vertice della NATO a Chicago.
Il contesto internazionale è ben noto, ma è stato e rimane oggetto di molti dubbi: è in corso un processo di “transizione” (non dunque, almeno ufficialmente, un “ritiro”) con una tabella di marcia che prevede l’attribuzione della piena responsabilità alle forze di sicurezza afgane per la fine del 2014. In realtà, molti sperano di accelerare i tempi della transizione, e la NATO puntava forse a dare qualche indicazione in proposito a Chicago.
Su questo sfondo, la tempistica degli eventi di Kabul non sembra casuale – a prescindere dall’usanza afgana di lanciare “offensive di primavera” per ragioni climatiche.
Anzitutto, l’America di Obama è in piena campagna elettorale: dopo il surge del 2009-2010 (un raddoppio dei soldati impiegati), Washington punta ora decisamente a una riduzione rapida dell’impegno sul terreno. In effetti, il presidente è già stato criticato dal versante conservatore proprio per aver in qualche modo rinnegato la sua stessa scelta iniziale, abbandonando troppo presto una linea che stava dando alcuni frutti, e rendendo vano il sacrificio delle truppe americane con l’esplicita indicazione di una data per il passaggio delle consegne agli afgani. Le critiche sono probabilmente eccessive, visto che una transizione del genere implica per sua natura una serie di passaggi prefissati, ma resta il fatto che Obama deve tenere conto di obiettivi contraddittori.
Gli alleati europei, dal canto loro, hanno espresso chiaramente l’intenzione di lasciare l’Afghanistan quanto prima, pur legando ufficialmente i proprio piani di ritiro progressivo alle decisioni prese appunto in comune con Washington in sede NATO. La pressione della crisi economica aggiunge una motivazione per il ritiro a una lista già lunga, mentre gli sviluppi politici in vari paesi del Mediterraneo e Medio Oriente richiedono attenzione immediata e forse nuovi impegni militari.
Infine, è in corso da mesi una sorta di negoziato sotterraneo tra emissari occidentali e alcune componenti della “galassia talebana”, che viene descritto da fonti ufficiali come un tentativo di mettere in contatto la parte meno intransigente della guerriglia con il legittimo governo afgano. Questo sforzo di riconciliazione nazionale è di per sé il risultato di un bagno di umiltà per gli occidentali, poiché la distinzione tra le diverse anime del movimento talebano appare assai ambigua e imprecisa. Inoltre, sono emersi problemi politici fin dai primi passi incerti di questo “processo di pace” (così denominato, a volte, dallo stesso dipartimento di Stato con una scelta che appare poco felice): a conferma della cronica debolezza del governo centrale, Karzai si è sentito aggirato se non messo da parte, e ha dovuto insistere molto prima di essere rassicurato sul suo coinvolgimento diretto. Non è stato certo incoraggiante, in tal senso, il fatto che il capo del cosiddetto “Alto Consiglio di Pace” (l’ex presidente Rabbani), che doveva concentrarsi proprio sul negoziato, sia stato assassinato nel settembre scorso.
La storia insegna che le manovre di ritiro (anche quando sono chiamate “transizioni”) possono diventare tanto rischiose quanto quelle di attacco, tramutandosi in un incoraggiamento tattico e psicologico per l’avversario che capisca di avere il tempo e l’inerzia dalla sua parte. Stiamo percorrendo questa linea sottile nel teatro afgano.
In ultima analisi, le scelte della coalizione internazionale rifletteranno sostanzialmente le scelte degli Stati Uniti, se non altro perché il contributo americano è sempre stato indispensabile alla presenza di forze straniere in Afghanistan: la NATO resterà nel paese fintanto che Washington deciderà di schierare un contingente non soltanto simbolico.
Barack Obama ha fatto dell’Afghanistan la “sua” guerra (al contrario dell’Iraq), seppure a malincuore; ha investito vite umane, denaro e capitale politico per contenere i danni del post-ritiro. Ha spostato il nucleo della strategia americana nella regione verso il vicino Pakistan (dove ha avuto luogo l’uccisione di Osama bin Laden dopo un decennio di tentativi falliti), ma non può rinunciare a esercitare una qualche influenza sul futuro dell’Afghanistan. Dunque, non vedremo probabilmente un mutamento di rotta nella politica di Washington, e dunque i piani di ritiro per ora proseguiranno; ma certo il problema di sicurezza della regione “Af-Pak” richiederà risorse americane ancora a lungo, e soprattutto più a lungo di quanto si sperasse fino a pochi giorni fa.
L’attuale presidente degli Stati Uniti sa da tempo di non poter ottenere una vera vittoria in Afghanistan, ma non può permettersi una vera sconfitta, anche perché se sarà riconfermato a novembre dovrebbe poi gestirla: il dilemma continua.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Il Messaggero il 16 aprile 2012.