Nicola Pedde è Direttore di “IGS – Institute for Global Studies”.
Aspenia online: L’attacco che il 14 settembre ha colpito i siti petroliferi sauditi (gli impianti di Abqaiq e il sito estrattivo di Khurais) sembra aver richiesto una notevole capacità tecnica e precisione. E’ affidabile e definitiva questa analisi prevalente, e cosa suggerisce riguardo ai responsabili dell’operazione?
Nicola Pedde: Le indagini sono appena iniziate, richiederanno tempo e dovranno essere condotte in un contesto di trasparenza nei confronti quantomeno dei principali paesi occidentali per poter poi essere giudicate attendibili. Pesa ancora molto nel rapporto soprattutto con gli europei, purtroppo, l’ambiguità e la frammentarietà con cui Nikki Haley, rappresentante americana all’ONU nel 2018, era solita gestire l’accesso alle informazioni relative alle responsabilità iraniane nei lanci dei missili in Yemen e in Arabia Saudita, senza tuttavia fornire alcuna evidenza tecnica delle indagini e limitando fortemente l’analisi dei reperti da parte dei periti stranieri.
Le indagini condotte sul luogo dell’attacco permetteranno di individuare e analizzare i frammenti degli ordigni impiegati, accertandone, almeno la/le tipologia/e, la distribuzione (tanto dei frammenti quanto dei detriti) e – compito moderatamente più complesso – l’angolo d’attacco e la presumibile traiettoria. Queste indagini saranno in grado di dire molto, ma certamente non tutto.
Le valutazioni espresse sino a questo momento si basano, perlopiù, sull’analisi delle fotografie aeree del luogo dell’attacco: la provenienza degli ordigni è stata dedotta attraverso un’approssimativa lettura del posizionamento dei punti d’impatto. Una speculazione tecnicamente poco sostenibile in assenza di elementi concreti derivanti dall’analisi sul terreno.
In merito all’attacco è quindi al momento lecito formulare ipotesi e considerazioni su due aspetti. Il primo è la precisione: effettivamente molti degli obiettivi sembrano essere stati colpiti con grande precisione e non per approssimazione dell’impatto al suolo. Il secondo è la portata: circa venticinque ordigni andati a segno, di cui 18 droni e 7 missili da crociera, oltre a tre andati fuori bersaglio, secondo quanto comunicato dal ministero della difesa saudita. Invece, non vi è alcuna certezza in merito alla rotta seguita e, di conseguenza, alla provenienza.
Le ipotesi sostenute dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita circa una rotta di provenienza nord/nord-est, oltre che approssimative nella determinazione, sollevano peraltro dubbi circa l’effettiva capacità di sorveglianza degli spazi aerei di almeno cinque paesi della regione e del poderoso apparato militare statunitense presente in Qatar e più ad ampio raggio nell’area del Golfo Persico. La portata dell’attacco e la più assoluta mancanza di reazione da parte della difesa anti-missile, anti-aerea e del controllo dello spazio aereo, rischiano di tradursi in una clamorosa dimostrazione di incapacità tanto sulla gestione saudita dei sofisticati apparati militari forniti dagli Stati Uniti e dagli europei, quanto sul’affidabilità degli apparati stessi.
Detto ciò, che l’attacco si collochi nell’ambito delle dinamiche del conflitto yemenita e della crisi del Golfo è di fatto una certezza. Più precisamente, l’episodio sembrerebbe potersi ricondurre alla dinamica di crisi bilaterale tra Washington e Teheran e all’evoluzione di una difficile ripresa della fase negoziale.
In che contesto politico interno si colloca un evento così traumatico per il Regno saudita? E’ plausibile l’ipotesi di collaboratori in territorio saudita che avrebbero facilitato l’operazione?
Il regno saudita attraversa la sua più grave crisi politica, economica e militare, e in massima parte le ragioni sono riconducibili all’avventatezza politica del giovane crown prince Mohammad Bin Salman.
Il traumatico processo di sostituzione politica che ha favorito l’ascesa dell’attuale principe ereditario ha lacerato i già fragili equilibri familiari all’interno della dinastia, allontanando gli anziani ma certamente più pragmatici e cauti esponenti della prima generazione e determinando una frattura familiare che si è consumata tra violenze, arresti ed arbitrarietà di ogni tipo.
Il consolidamento del ruolo del nuovo vertice politico del regno è stato attuato attraverso l’illusoria apertura sul piano sociale e dei costumi e sul tentativo di rilancio dell’economia nazionale attraverso un programma, la Vision 2030, che non ha incontrato grande interesse e sostegno sul piano degli investimenti internazionali. Il parallelo tentativo di collocare una quota della società petrolifera Aramco sul mercato finanziario ha determinato una forte opposizione interna alla corona, che non guarda di buon occhio all’ipotesi di una ingerenza internazionale nei libri contabili della società e, soprattutto, nell’uso del denaro pubblico generato dai proventi dell’attività petrolifera.
In modo del tutto inopportuno, inoltre, il crown prince saudita ha dato avvio nel 2015 a una fallimentare operazione militare nello Yemen, nell’illusoria convinzione di poter avere in breve tempo ragione della ribellione che nel nord del paese aveva portato gli zayditi Huthi e le milizie fedeli all’ex presidente Saleh a contrapporsi a quelle dell’ex vice presidente Hadi.
Il conflitto, inizialmente sostenuto da una poco convinta coalizione regionale a guida saudita, si è ben presto tramutato in una guerra civile che ha impegnato le forze della coalizione ben oltre le proprie possibilità, traducendosi di fatto in una débâcle militare sul terreno. Sebbene espressione di una componente confessionale sciita diversa da quella maggioritaria duodecimana, gli Huthi sono riusciti ad ottenere il sostegno dell’Iran nella conduzione dello sforzo bellico, soprattutto attraverso il ruolo di consiglieri militari. Questi hanno permesso l’utilizzo e la modernizzazione dell’ex arsenale yemenita, dotato in partenza di un gran numero di missili Scud B e di altri armamenti obsoleti, che i militari iraniani hanno saputo ammodernare e rendere efficaci nella gestione dello scontro con le forze della coalizione a guida saudita, equipaggiata invece con la tecnologia militare occidentale più all’avanguardia.
I crescenti insuccessi in Yemen hanno spinto le forze della coalizione a un progressivo disimpegno dal terreno, e a un contestuale ricorso a massicci ed indiscriminati bombardamenti aerei. Una guerra poco conosciuta si è trasformata allora in un pericoloso boomerang d’immagine per Riyad, oggi accusata dalla comunità internazionale di aver provocato una delle peggiori crisi umanitarie del pianeta.
Non ultimo, la débâcle militare sul terreno ha reso porosi i confini ed incrementato il rischio di attacchi sul territorio saudita: questi si sono puntualmente verificati, in diverse occasioni ai danni di obiettivi importanti come aeroporti e raffinerie persino nella capitale. Tali attacchi sono stati condotti grazie alla capacità di penetrazione a lungo raggio delle cellule combattenti degli Huthi all’interno del territorio saudita, capaci di posizionarsi a poca distanza dagli obbiettivi.
Dalle prime ricostruzioni, e dalle stesse dichiarazioni del governo saudita (oltre che di Washington), siamo di fronte comunque a un evento che va oltre il conflitto in Yemen. Se l’attacco fosse effettivamente partito dal territorio iracheno, che tipo di scenario si aprirebbe? Possiamo dare per scontato un ruolo diretto delle forze iraniane in Iraq (come hanno fatto varie parti in causa) o è possibile che alcune milizie sciite abbiano agito da sole?
È ancora presto per una valutazione squisitamente tecnica dell’attacco condotto in Arabia Saudita, ma una considerazione politica è possibile.
L’attacco si inserisce tanto nel contesto di conflittualità palese dello Yemen quanto in quello latente del Golfo, dove i principali attori sono l’Arabia Saudita, l’Iran, gli Stati Uniti e i Paesi che si affacciano sullo stretto specchio di mare del Golfo Persico.
L’accelerazione del processo di crisi regionale è iniziato con l’avvio della presidenza Trump e, soprattutto, all’indomani della decisione di abbandonare l’accordo raggiunto nel 2015 sul programma nucleare di Teheran, il JCPOA. Il ripristino delle “sanzioni secondarie” (quelle che impediscono alle terze parti che commerciano con entità iraniane di avere accesso ai mercati USA) e l’adozione della strategia della massima pressione contro l’Iran – per costringerlo a nuovi negoziati – hanno determinato effetti multipli, generando da un lato una crescente crisi economica in Iran, e dall’altro l’adozione da parte di Teheran di una postura sempre più aggressiva soprattutto nei confronti delle monarchie del Golfo.
Una serie di sabotaggi e attentati – condotti senza lasciare alcuna smoking gun – hanno interessato le attività navali degli Emirati Arabi Uniti. E poi gli attacchi condotti dagli Huthi con droni e missili contro aeroporti, installazioni petrolifere e infrastrutture energetiche in Arabia Saudita si sono intensificati. L’intera regione si è scoperta molto vulnerabile.
Da tempo fortemente critici tanto sulla condotta della guerra, quanto sulla collaborazione dei sauditi con le formazioni qaediste presenti in Yemen, gli Emirati Arabi Uniti hanno adottato nel corso degli ultimi mesi una nuova strategia di sicurezza regionale. Da un lato si sono disimpegnati dal conflitto, scegliendo di favorire le forze separatiste dello Yemen meridionale, dall’altro si sono impegnati a definire un perimetro di convivenza con l’Iran per impedire il coinvolgimento del paese in una eventuale escalation militare.
Mentre l’Arabia Saudita guarda all’Iran come una minaccia esistenziale, rifiutando ogni forma di compromesso, gli Emirati Arabi Uniti considerano Teheran un attore localmente egemone con il quale è certamente più opportuno definire un quadro di coesistenza e compromesso, iniziando proprio dallo Yemen e determinando i margini di quella che idealmente dovrebbe essere secondo il governo di Abu Dhabi la suddivisione territoriale tra il nord controllato dagli Huthi e il sud amministrato dalle forze separatiste. Una strategia in netta contrapposizione con quella dell’Arabia Saudita, che sulla vittoria del governo unionista di Hadi ha investito buona parte della propria credibilità.
In questo contesto gli Stati Uniti e l’Iran continuano ad affrontarsi in un crescendo di contrapposizioni, caratterizzate tuttavia dalla reciproca necessità di individuare i margini per un nuovo compromesso negoziale. Trump ritiene possibile raggiungere un nuovo accordo con l’Iran, da spendere politicamente come successo di politica internazionale su cui costruire la campagna per la sua rielezione nel 2020, ma le alterne vicende della sua amministrazione e il turnover delle expertise all’interno dell’apparato di governo rendono difficile la manovra di avvicinamento a Teheran.
Anche l’Iran ha urgenza di definire i termini di un nuovo accordo, soprattutto in conseguenza del durissimo impatto delle sanzioni, che ha portato oggi la produzione petrolifera al di sotto dei 200.000 barili al giorno, a fronte di una cosiddetta quota minima di sopravvivenza di 1.200.000 barili al giorno. Il governo del presidente Hassan Rouhani è in grande difficoltà, sebbene ancora sostenuto dalla Guida Ali Khamenei, e il timore principale è quello di consegnare il parlamento alle formazioni ultraconservatrici alle prossime elezioni del febbraio 2020.
A fonte di un interesse comune nel negoziato, tuttavia, per Teheran questo non può essere raggiunto nell’ambito di una narrativa costruita sulla vittoria delle sanzioni e la resa del governo. Al tempo stesso è impensabile per l’Iran continuare nel limbo del crollo della produzione di petrolio e dalla crescente crisi economica e sociale.
Per questa ragione è pienamente lecito presupporre che l’Iran possa aver avuto un ruolo indiretto ma ben definito nella dinamica degli attacchi all’Arabia Saudita, volendo inviare in modo chiaro e tangibile un segnale agli Stati Uniti. Un messaggio, peraltro, più volte ribadito dal ministro degli esteri Mohammad Zarif in decine di incontri internazionali: la strategia della massima pressione deve cessare, e con essa il blocco delle esportazioni petrolifere iraniane, perché l’Iran ha la capacità di colpire nella regione determinando conseguenze disastrose per gli alleati regionali degli Stati Uniti e per Washington stessa.
Il presidente Trump è ben conscio del rischio politico determinato da una crescita improvvisa dei prezzi del petrolio, e al tempo stesso comprende lo straordinario potenziale di un nuovo accordo con l’Iran, da presentarsi come soluzione a quel “peggior accordo mai stipulato dagli Stati Uniti” che aveva siglato Obama nel 2015 insieme alla comunità internazionale. Ma c’è bisogno di una narrativa di reciproco successo, spendibile in entrambi i paesi come una vittoria delle rispettive amministrazioni e come l’avvio di una nuova fase di sviluppo e stabilità regionale, perché le trattative possano andare a buon fine. Condizione apparentemente non facile da far comprendere al presidente Trump.
Perché la strategia iraniana funzioni, però, l’attacco contro le istallazioni petrolifere saudite non deve in alcun modo essere riconducibile in modo diretto a Teheran: se la “pistola fumante” fosse trovata nelle mani dell’Iran, gli Stati Uniti dovrebbero interrompere ogni negoziato, e sarebbe anche complicato impedire episodi di guerra aperta.
Appare quindi altamente improbabile che l’attacco sia stato condotto tanto dal territorio iraniano quanto da milizie filo-iraniane in Iraq, potendosi ritenere al contrario verosimile che la conduzione materiale sia stata affidata agli Huthi.
Siamo di fronte in ogni caso a un’escalation nel grado di conflittualità regionale, ma molto dipende dall’analisi degli allineamenti geopolitici: è davvero così solido l’asse saudita-americano-israeliano? Washington ha interesse a seguire Riyad sulla strada di un eventuale conflitto militare con l’Iran?
L’asse saudita-americano-israeliano sembra essere venuto meno ormai da tempo. Il piano di pace di Trump per la soluzione del problema israelo-palestinese è da mesi caduto in un oblio dal quale appare molto improbabile che possa riemergere in tempi brevi, mentre la possibilità di una legittimazione regionale del ruolo di Israele grazie alla mediazione saudita sembra essere stata congelata sine die.
In generale, il tentativo di definire ed attuare una strategia di stabilità regionale guidata dagli Stati Uniti, e sostenuta da buona parte del mondo arabo – con una postura marcatamente anti-iraniana – sembra aver subito una battuta d’arresto, con il risultato di una stasi che ha finito per favorire paradossalmente proprio l’Iran.
Nel Golfo, Teheran e Abu Dhabi hanno avviato da alcuni mesi un proficuo processo di stabilizzazione, sostenuto in modo più o meno palese dall’Oman, dal Qatar – nonostante la perdurante crisi con gli Emirati – e anche dal Kuwait, che pragmaticamente aderisce in chiave di moderatore regionale. Questa evoluzione ha portato all’indebolimento del Consiglio di Cooperazione del Golfo (organo multilaterale a guida saudita), e di conseguenza alla marginalizzazione dell’Arabia Saudita e del Bahrain.
L’effetto positivo di questa complessa ed ancor oggi pericolosamente instabile evoluzione è però tanto importante quanto positivo. Sebbene ancora allo stato embrionale, inizia a delinearsi nel Golfo un processo di ridefinizione degli equilibri regionali costruito solo ed esclusivamente per iniziativa degli attori regionali, senza alcuna ingerenza esterna. La continuità di questo processo, per avere esisto positivo, non può che transitare attraverso un’inclusione dell’Arabia Saudita, e questo significherebbe di fatto offrire a Mohammad Bin Salman quella possibilità di uscita onorevole dal conflitto yemenita che oggi nessuno sembra al contrario voler garantire al giovane erede al trono.
Quanto è forte il rischio che l’escalation sia in qualche modo “pilotata” dalle componenti interne iraniane (e forse anche americane, israeliane e saudite) più favorevoli a uno scontro diretto? In sostanza, ci sono realmente in Iran forze con un grado di autonomia sufficiente da scatenare un attacco come quello del 14 settembre e poi sfruttarlo a fini politici?
A dispetto della vulgata occidentale e dei molti stereotipi che da quarant’anni accompagnano l’interpretazione della politica iraniana, il paese è tutt’altro che monolitico ed anzi altamente conflittuale sul piano istituzionale.
La Guida Suprema, Ali Khamenei, viene erroneamente percepita in Occidente come una figura di vertice isolata e assoluta, confondendo le sue prerogative con quelle del suo predecessore, e fondatore della Repubblica Islamica, l’Ayatollah Khomeini. L’attuale Guida, al contrario, è una sorta di primus inter pares, cui spetta di fatto l’ultima parola in termini decisionali ma che non può esercitare questa capacità in contrapposizione al volere popolare e a quello delle molteplici ed eterogenee componenti politiche del paese. La Guida Suprema odierna, quindi, è in sostanza un mediatore della politica, sempre più impegnato nella ricerca di una sintesi tra posizioni spesso agli antipodi, il cui obiettivo primario è quello di impedire che queste divergenze possano trovare sfogo sul piano della protesta sociale, come più volte accaduto nel corso degli ultimi dieci anni.
Parimenti confusa nella lettura occidentale è la realtà che circonda i cosiddetti Pasdaran, ovvero le Guardie della Rivoluzione (o IRGC), la cui lettura esterna al paese è quella di una fanatica e monolitica guardia pretoriana. L’IRGC, al pari di ogni altra componente del sistema istituzionale iraniano, presenta al suo interno le medesime contraddizioni e divisioni individuabili sul piano politico e sociale, potendo in tal modo individuare orientamenti molto differenti tanto nella sua catena di comando quanto nella struttura. È opportuno ricordare inoltre che l’IRGC, oltre ad essere una forza militare (parallela a quella tradizionale dell’Artesh) è anche – e forse soprattutto – un grande conglomerato economico, i cui interessi sono ramificati in ogni ambito dell’economia iraniana. Come tale, quindi, bisogna considerare quanto l’IRGC guardi all’escalation e al rischio di un conflitto anche in chiave meramente economica, con tutto ciò che ne conseguirebbe nel caso di un conflitto.
La particolarità dell’IRGC, soprattutto sul piano militare, è quella di dipendere gerarchicamente dal Ministero della Difesa sotto il profilo tecnico-logistico e al tempo stesso dall’Ufficio della Guida sotto il profilo strategico-operativo. L’Ufficio della Guida, ormai un vero e proprio colossale ministero, intrattiene quindi con l’IRGC relazioni dirette che in un certo qual modo superano e sostituiscono quelle puramente gerarchiche connesse alla gestione ordinaria dell’unità.
In questo modo, sebbene presenti orientamenti molto diversi sul piano della visione politica e delle prerogative strategiche del paese, è alquanto improbabile poter accettare l’ipotesi – molto diffusa al contrario in occidente – di una capacità di indipendenza delle unità periferiche della struttura militare iraniana. In sintesi, se è certamente vero che una considerevole parte di questo ambiente guarda con grande scetticismo a qualsiasi ipotesi di negoziato con gli USA e di apertura verso l’esterno, è altrettanto vero che l’opposizione a queste aperture del governo Rouhani viene condotta sul piano della politica interna, e non già attraverso la conduzione di operazioni autonome e contrarie a quanto stabilito in seno ai centri decisionali del Paese.