L’Iran, i nuovi equilibri regionali, e la mossa francese

L’arrivo del Ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif a Biarritz, a margine del G7, è parte di un tentativo di mediazione difficile e incerto, e niente affatto una sorpresa per il Presidente statunitense Trump. Più in generale, il tentativo di mediazione francese per cercare di sbloccare l’impasse della crisi tra Iran e Stati Uniti non può essere considerato come un’iniziativa autonoma e indipendente: è piuttosto espressione di una nemmeno troppo celata richiesta tanto da parte degli Stati Uniti quanto dell’Iran.

Washington e Teheran hanno in comune in questo momento due motivi. Da un lato, l’esigenza di risolvere i problemi determinati dalla reciproca e quarantennale incapacità di ristabilire una linea di dialogo diretta ed ufficiale. Dall’altro, quella di riprendere in mano le redini degli equilibri regionali, prima che questi esplodano in una nuova fase di conflittualità.

 

Il devastante impatto regionale della strategia della “massima pressione”

La decisione di Trump di uscire dall’accordo sul nucleare siglato (in formato multilaterale) con l’Iran nel 2015 ed esercitare una progressiva crescente pressione sul paese per costringerlo ad accettare i termini di un nuovo accordo – ad oggi ancora del tutto indefinito – ha colpito duramente l’Iran. Ma ha anche determinato effetti collaterali sul piano regionale che si sono rivelati del tutto contrari agli interessi degli Stati Uniti.

Vari sviluppi recenti hanno alimentato un diffuso timore tra i governi della regione; si è trattato di una vera e propria escalation di cui più volte si è temuto lo scoppio in guerra aperta. Prima la tensione militare nel Golfo è cresciuta per l’arrivo di un secondo gruppo navale statunitense (a maggio, in aggiunta a quello permanente di base in Qatar); poi per l’abbattimento di un loro drone nell’area di Hormuz. Inoltre, per il verificarsi di episodi di sabotaggio contro petroliere al largo delle coste degli Emirati; e infine per il sequestro di una petroliera inglese come ritorsione per un equivalente sequestro di una nave iraniana a Gibilterra.

Il Golfo Persico e lo Stretto di Hormuz

 

In particolar modo, l’escalation sembra aver definitivamente convinto gli Emirati Arabi Uniti (Paese rivierasco del Golfo Persico e dello Stretto di Hormuz, come l’Iran) della necessità di separare il proprio destino in Yemen – e non solo – da quello dei sauditi. Gli emiri di Abu Dhabi hanno ritirato definitivamente il proprio supporto militare a Riad, e al tempo stesso hanno offerto pieno sostegno ai gruppi separatisti del sud, che hanno messo temporaneamente in fuga il governo e determinato una profonda frattura nell’alleanza sunnita.

Gli Emirati hanno anche rilanciato le relazioni proprio con l’Iran – che in Yemen appoggia a nord i ribelli Houthi di confessione sciita (ma non duodecimani come gli iraniani) e intrattiene eccellenti relazioni con il Qatar – definendo non solo i margini dell’uscita dallo Yemen ma anche e soprattutto quelli di una futura cooperazione nel Golfo. E’ una svolta accolta positivamente dall’Iraq, dal Kuwait, dall’Oman e persino dal Qatar, che da oltre due anni non ha relazioni diplomatiche con i sauditi e gli emiratini. Va ricordato che il Consiglio di Cooperazione del Golfo (organismo che in teoria riunisce gli attori regionali, sotto il controllo dell’Arabia Saudita) è ormai del tutto privo di reale funzionalità, e questo sancisce ancora una volta come la leadership regionale dei sauditi sia messa in discussione dalla gran parte degli attori regionali.

Venendo meno l’equilibrio regionale a guida saudita, sembra anche essere tramontato il pomposo quanto improbabile progetto per il cosiddetto “accordo del secolo” annunciato solo pochi mesi fa da Donald Trump. L'”accordo del secolo” avrebbe dovuto non solo riportare la pace nella regione risolvendo il problema delle relazioni tra la comunità palestinese e Israele, ma anche e soprattutto delineare un riconoscimento ed un ruolo per lo stato israeliano nella regione, in piena sintonia e cooperazione con buon parte dei suoi vicini.

Al contrario, Israele si trova isolato come forse mai prima, e, valutando l’ipotesi di un negoziato diretto tra Stati Uniti e Iran e di una successiva distensione come una minaccia esistenziale – se non per il paese almeno per la carriera politica del premier Benjamin Netanyahu – ha accentuato la postura interventista. Negli ultimi due mesi ha condotto un crescente numero di attacchi in Siria, Libano, Gaza e Iraq, arrivando ad indispettire gli stessi Stati Uniti, allarmandoli non poco soprattutto per la stabilità dei rapporti politici a Bagdad.

In tal modo, quindi, se la strategia della “massima pressione” ha messo in ginocchio l’Iran determinando una gravissima crisi economica locale, ha al tempo stesso provocato un riassestamento degli equilibri regionali del tutto autonomo e scollegato dalle aspettative e dai piani degli Stati Uniti.

 

L’interesse comune di Washington e Teheran

La crisi economica e i mutamenti politici regionali hanno portato quindi tanto Washington per Teheran alla necessità di definire i termini per un nuovo accordo sul programma nucleare iraniano.

Il Presidente Trump sembra guardare a questo nuovo accordo esclusivamente sotto il profilo del proprio interesse politico personale, con scarsa attenzione ai contenuti; il negoziato potrebbe quindi addirittura condurre a qualcosa di molto simile – o perfino assolutamente identico – al contestato JCPOA del 2015 firmato da Barack Obama. La crisi nella regione, però, concede oggi meno spazio di manovra alla Casa Bianca, che condivide quindi con Teheran l’urgenza per la definizione di un accordo. E’ per questo che Washington sembra disposta a concedere all’Iran un qualche margine: si tratta di impedire che l’ala più interventista e ostile dell’amministrazione possa esercitare pressioni per imporre l’inserimento del programma missilistico e le questioni di politica regionale nel testo di un nuovo documento.

La fretta e l’emergenza della crisi economica spinge anche Teheran, tuttavia, ad assumere una postura meno rigida e formale rispetto al passato e alla tradizionale posizione del paese, che storicamente evita la spettacolarizzazione dei negoziati e soprattutto la manifestazione della propria debolezza. E’ in tal modo che deve essere letta la disponibilità di Zarif a “correre” a Biarritz, dando un segnale molto preciso agli Stati Uniti e sorvolando sulla usuale esigenza di rispettare le norme basiche della dissimulazione negoziale.

Donald Trump e Hassan Rouhani

 

Tanto Trump quanto il presidente Hassan Rouhani hanno insomma necessità di questo nuovo accordo, che, tuttavia, per poter essere definito e confezionato nella sua forma finale deve poter essere spendibile come un successo politico da entrambi. Per ottenere tale risultato è quindi necessario un facilitatore che individui e renda praticabile da entrambe le parti un terreno negoziale neutro. Impresa non certo facile in questo momento; ma è qui che si inserisce il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron di rendersi funzionale a quelle che più volte sono state esplicitamente definite come manifeste richieste tanto degli USA quanto dell’Iran.

Quanto, e se, questa capacità del facilitatore francese funzioni lo appureremo con ogni probabilità nel corso delle prossime settimane, quando sarà più chiaro l’effettivo quadro pre-negoziale e la definitiva disponibilità delle parti a intraprendere il nuovo percorso. Pesano sullo scenario ottimistico di questa evoluzione, chiaramente, il ruolo sia delle rispettive frange di opposizione interna ai due attori principali, sia quello degli attori regionali che guardano oggi ad un riavvicinamento tra Washington e Teheran come ad un vero e proprio tradimento dell’amministrazione Trump.

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