Arabia ed Emirati contro Qatar: la competizione regionale si allarga

La crisi politica tra Arabia Saudita-Emirati Arabi Uniti (con Bahrein ed Egitto) e Qatar, che in realtà prosegue sottotraccia da almeno tre anni, è venuta alla luce in maniera dirompente negli ultimi giorni. Questa disputa è anche una storia di ambizioni nazionali e rivalità personali tra leader: fa riflettere, in particolare, che ad animare l’ultima escalation siano tre personaggi al potere, giovani o relativamente tali, che rappresentano la nuova generazione di governo negli stati arabi del Golfo, figli o nipoti dei fondatori dei rispettivi Stati: il vice principe ereditario saudita Mohammed bin Salman Al-Saud (31 anni), l’emiro qatarino Tamim bin Hamad Al-Thani (37 anni), il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed Al-Nahyan (56 anni). Ma le chiavi di lettura di questa crisi sono molteplici e complementari.

Il fronte saudita ha accusato il Qatar di sostenere “il terrorismo”: nella visione geopolitica di Riyad, è ormai chiaro che questo termine comprende sia i jihadisti di Daesh (ISIS) e Al-Qaida, sia l’Iran. Siamo allora di fronte alla prosecuzione delle fibrillazioni del 2014: ma le misure adottate, i toni e le ripercussioni regionali sono, stavolta, estremamente più gravi e imprevedibili, così come confusa è la gestione che gli Stati Uniti stanno facendo della crisi.

La regione del Golfo Persico

 

Oltre ad aver interrotto le relazioni diplomatiche come accadde tre anni fa, Riyad e i suoi alleati hanno di fatto sottoposto a embargo il piccolo emirato degli Al-Thani: nessun volo dal e per il Qatar; espulsione dei cittadini qatarini entro due settimane; chiusura dell’unico confine terrestre del paese, quello con l’Arabia Saudita. In più, lo scenario regionale è ora fortemente destabilizzato. L’attacco coordinato al Parlamento e al mausoleo dell’ayatollah Khomeini di Teheran del 7 giugno, il primo attentato terroristico rivendicato da Daesh nel Paese di cui si abbia notizia, non fa che aumentare la conflittualità nel Golfo: il Bahrein a maggioranza sciita potrebbe essere la prossima “vittima collaterale” di questo scontro. Infatti, Riyad sta insistendo sui legami del Qatar con alcune organizzazioni armate sciite di Manama sostenute, secondo i sauditi, anche da Teheran. Mentrel neo-rieletto presidente dell’Iran, il pragmatico Hassan Rouhani, ha invocato l’unità contro il terrorismo, le Guardie rivoluzionarie (i pasdaran) hanno immediatamente denunciato la presunta regia saudita dietro gli attacchi, così come il ministro degli esteri iraniano Zarif ha accusato l’Arabia Saudita di promuovere gruppi terroristici nell’est dell’Iran, citando la regione del Sistan Baluchistan, al confine con il Pakistan

Doha viene oggi punita da Riyad e Abu Dhabi per l’indipendenza della sua politica estera (spesso spregiudicata), mai sovrapponibile ai diktat del gigante saudita, nonostante la parziale abiura seguita alla crisi intra-sunnita del 2014. “Qatar: small state, big politics”: così il professor Mehran Kamrava aveva intitolato, nel 2013, la sua monografia sulla politica regionale di Doha: sostegno a Fratellanza Musulmana e Hamas, consuetudine diplomatica con l’Iran, quindi facilità di interazione con movimenti filo-iraniani (Hezbollah libanese e huthi yemeniti). Anche l’Oman, lo stato tradizionalmente pontiere in Medio Oriente, mantiene da sempre buoni rapporti con Teheran. Approccio e toni sono però assai differenti: il sultanato dell’Oman tesse relazioni con studiata riservatezza (e non sostiene milizie all’estero), mentre l’emirato del Qatar non ha esitato a giocare, miscelando soft e hard power, su tutti i tavoli regionali, per guadagnare rango e visibilità.

Tutto ciò era però già noto: perché questa crisi adesso? Sono cinque le chiavi di lettura complementari che si possono individuare.

Effetto Trump: dopo il viaggio del presidente statunitense in Arabia Saudita (20-21 maggio), l’Arabia Saudita e gli EAU hanno deciso di ”regolare definitivamente i conti” con il Qatar, partner riottoso rispetto alla linea saudita, perché hanno sempre ricevuto l’appoggio della Casa Bianca in questi primi mesi di presidenza.. A Riyad, Donald Trump ha scandito due linee-guida: lotta al terrorismo di matrice jihadista (Daesh) e isolamento regionale dell’Iran. Non solo questi due obiettivi non sono integrabili, ma la stessa etichetta di terrorista è purtroppo divenuta, nella retorica del fronte saudita, uno strumento geopolitico (come già avvenuto con l’appartenenza confessionale sunniti-sciiti): non è dunque casuale che la motivazione addotta da Riyad per emarginare il Qatar sia quella del terrorismo.

Iran: il Qatar ha rapporti di buon vicinato con l’Iran, nonostante il wahhabismo sia religione ufficiale (come in Arabia Saudita): di per sé, questo è già un motivo di sospetto per i sauditi, che temono l’interferenza dell’Iran nelle crisi della Penisola arabica (Bahrein, Yemen, regione orientale saudita) in cui gli sciiti sono coinvolti. Oltre alle relazioni commerciali, Doha e Teheran condividono lo sfruttamento del più grande giacimento gasifero del mondo, North Dome/South Pars, pilastro della rendita energetica qatarina. Pertanto, Doha non ha mai esasperato la retorica settaria contro gli iraniani e gli sciiti in generale, a differenza di Riyad.

Rivalità UAE-Qatar: emiratini e qatarini sono da sempre in competizione e il principe ereditario emiratino Mohammed bin Zayed, con la sponda dei sauditi, sembra il vero regista della crisi odierna. Questa rivalità fra “small states” è innanzitutto economica (investimenti stranieri) e mira a trasformare gli Stati in brand di successo internazionale: si pensi alle compagnie aeree o alle acquisizioni globali nei settori del lusso e del calcio.

Abu Dhabi e Doha hanno due strategie diverse per guadagnare influenza in Medio Oriente: gli emiratini puntano sul potere militare e la capacità di proiezione marittima, mentre i qatarini optano per il soft power finanziario e mediatico (di cui Al-Jazeera è solo un esempio). I due Stati hanno visioni differenti anche sull’Islam politico – in Libia hanno persino sostenuto fazioni opposte (Abu Dhabi con Tobruk e il General Haftar, Doha con gli islamisti di Tripoli). A riguardo, gli EAU non perdonano al Qatar di aver offerto riparo, nel 2012, alla leadership della Fratellanza Musulmana emiratina (Islah), duramente repressa dagli apparati di Abu Dhabi. E poi ci sono gli Stati Uniti. Gli EAU, forti di obiettivi regionali convergenti con questa amministrazione, cercano una relazione privilegiata con Washington, soprattutto dal punto di vista militare; e il Qatar ospita sia la fondamentale base aerea di al-Udeid che il Comando Centrale Usa (CENTCOM).

Economia e riforme interne: l’isolamento del Qatar e la stigmatizzazione della sua politica regionale hanno anche ragioni di politica interna per le altre monarchie del Golfo, finalizzate alla sicurezza dei regimi. Infatti, il ”giro di vite” anti-Qatar è funzionale al potenziamento della repressione del dissenso interno, sia di natura economico-sociale che politico-religiosa. Ciò avviene in una fase di trasformazioni economiche strutturali (come la Vision 2030 saudita e l’obiettivo di un’economia post-oil), nonché di assestamento al ribasso del prezzo del petrolio: fenomeni che hanno indotto le monarchie a tagliare sussidi e bonus. Poche settimane fa, il re saudita Salman ha frettolosamente ripristinato i benefit per impiegati pubblici e militari di fronte a segnali di malcontento sociale, come le manifestazioni anti-tagli che si preparavano, via reti sociali, in quattro città. Emirati e Bahrein hanno subito annunciato pene carcerarie per chi solidarizza con il Qatar sul web.

Successioni al trono: colpire la politica regionale alternativa propugnata da Doha significa, per Mohammed bin Zayed e Mohammed bin Salman (che aspira a diventare il n°2 per il trono saudita), consolidare la loro ascesa al potere, depotenziando visioni rivali che potrebbero ostacolarne, dall’interno, la leadership. Specularmente, Tamim bin Hamad ha cercato di fare lo stesso in Qatar dal 2013, anno del suo insediamento, a oggi: rinforzarsi sul piano interno mediante la prosecuzione dell’iperattivismo diplomatico che fu di suo padre, aprendo a nuove clientele pur assecondando i tradizionali gruppi di interesse. Riprova ne è che l’Arabia Saudita tentò in due diverse occasioni (1996 e 2005) di detronizzare l’emiro qatarino Hamad bin Khalifa, padre di Tamim.

Il quadro è dunque complicato e pericoloso. Il Kuwait sta lavorando per stemperare la crisi: tuttavia, se anche la frattura tra i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) dovesse ricomporsi pubblicamente, il fossato politico e relazionale tra il fronte saudita e il Qatar si è di molto allargato. E lascerà insidiosi strascichi. Le ricadute geopolitiche si stanno già delineando: mentre i sauditi vogliono una mediazione interna al CCG, Doha sta cercando alleati internazionali per mitigare gli effetti, anche sociali, dell’isolamento.

È interessante che il Ministro degli esteri qatarino si sia recato sì in Russia, ma innanzitutto in Germania: una conferma del nuovo ruolo di Angela Merkel come guida di quella parte del “mondo libero” che non si riconosce nelle politiche del nuovo inquilino della Casa Bianca – Trump  invece plaude (nonostante i soliti messaggi contraddittori) alla decisione di Arabia ed Emirati. Ma a livello regionale, Iran e Turchia sono al fianco del Qatar. La recuperata alleanza turco-saudita potrebbe di nuovo incrinarsi: il Parlamento di Ankara, che sta costruendo una base militare nel piccolo emirato, ha approvato l’invio di altri 200 soldati a Doha entro due mesi (al momento ve ne sono un centinaio), sulla base di un accordo per addestramento e industria militare.

Iran, Turchia e Russia: l’equazione che da anni caratterizza la disastrosa crisi siriana si sta velocemente riproponendo anche per il Qatar. Ma l’Arabia Saudita e i leader della nuova generazione dei paesi arabi del Golfo possono davvero permetterselo?

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