Cosa è successo dunque in Catalogna il 1° ottobre? I fatti ci dicono che i partiti indipendentisti alla guida del governo di Barcellona hanno organizzato una consultazione elettorale; il voto doveva vertere sull’indipendenza o no della Catalogna dalla Spagna; il governo spagnolo ha impedito che la consultazione avesse luogo regolarmente.
Ma, come la geografia in fondo non è altro che un disegno su carta del mondo, una semplificazione della complessità, anche la politica in fin dei conti è una proiezione: un racconto a parole del mondo. Entrambe le astrazioni sono arbitrarie, perché seguono una scelta deliberata di fatti e di dettagli. La politica sceglie di suscitare alcuni (e non altri) sentimenti, mette in luce alcune immagini, valorizza alcuni concetti – il tutto in conseguenza di un’interpretazione dei fatti tanto parziale, quanto legittima e umana.
Entrando in una prospettiva di lungo periodo, il 1° ottobre è una delle manifestazioni dello scontento delle classi medie europee colpite dalla crisi economica. I timori e le aspirazioni delle classi medie sono stati un grande motore politico nell’Europa del secondo dopoguerra, in cui grazie alla crescita dello stato sociale queste classi hanno prosperato. Lo stesso è accaduto in Spagna, già dagli ultimi anni della dittatura franchista. Morto Francisco Franco (1975), ripristinata la monarchia costituzionale (1978-79), le classi medie della Catalogna, la borghesia e il commercio di Barcellona, la piccola impresa e i contadini dell’interno, desideravano soprattutto una cosa: che la spinta della sinistra, la forte sinistra del proletariato urbano e della cintura industriale barcellonese, non cambiasse gli equilibri economici della regione. Il partito nazionalista catalano (allora un’alleanza chiamata Convergenza e Unione) sposava con successo questo spirito: la sua linea moderata e prudente gli fruttava il governo della Catalogna per 23 anni ininterrotti (1980-2003, con Jordi Pujol). La richiesta d’indipendenza restava confinata a qualche testa calda della sinistra locale.
In quegli anni, la Catalogna si trasformava in una regione ricca; addirittura in uno dei quattro “motori d’Europa” (insieme alla Lombardia, al Baden-Württemberg, e al Rodano-Alpi). Giunta poi in Spagna, dopo il 2008, una crisi tremenda e inaspettata, il timore delle classi medie catalane divenne un altro: quello di perdere le posizioni di benessere acquisite. Come evitarlo? Staccando i rostri che la tenevano legata al vascello spagnolo, sul punto di affondare; facendo rimanere i soldi delle tasse sul territorio; costruendo un’amministrazione più efficiente e un proprio sistema giudiziario; rifiutandosi di contribuire all’iniqua redistribuzione delle risorse dello stato. Permetteva la Spagna questo salto in avanti, questa maggiore autonomia? No, secondo la prospettiva della classe politica ex-moderata, che passava allora alla causa dell’indipendentismo con l’obiettivo di convincere i catalani della bontà della scelta.
Proprio su quest’ultimo punto i nazionalisti catalani hanno fallito. Nonostante enormi manifestazioni, una propaganda efficace, e il controllo amministrativo della regione; nonostante le vittorie calcistiche del Barça, squadra-bandiera dell’identità catalana; nonostante la crisi del sistema politico spagnolo e il disinteresse mostrato da Madrid; nonostante quasi tutti i catalani siano convinti che la relazione con Madrid vada aggiornata, o cambiata, in nessun appuntamento elettorale la somma dei partiti indipendentisti in Catalogna ha mai superato il 50% dei voti. Due anni fa, in maggio, il fronte secessionista ha dovuto perfino subire lo smacco di perdere il municipio di Barcellona a beneficio della candidata di Podemos, Ada Colau. E nel settembre successivo, alle ultime elezioni regionali, l’erede di Pujol, Artur Mas, si è dovuto dimettere quando la coalizione nazionalista, che voleva dai cittadini un plebiscito pro-indipendenza, raccoglieva invece un misero 39,6%.
Ecco perché la risposta della Spagna al 1° ottobre è una grande sconfitta politica oltre che strategica. Perché ha permesso, grazie alla concitazione mediatica attorno all’evento, una semplificazione “Spagna contro Catalogna” che è ideale per gli indipendentisti. Come abbiamo visto, infatti, essi non rappresentano affatto “la Catalogna”.
Il referendum, già illegale di per sé, indetto per di più con una procedura-lampo che non ha permesso alcuna discussione democratica nel parlamento di Barcellona, è stato un rischio ben calcolato dagli indipendentisti. Al loro interno, nella vecchia Convergenza e Unione, è cresciuta una delle classi politiche più scaltre e meglio attrezzate a comprendere i meccanismi di potere all’interno della Spagna. Forse perché – insieme al nazionalismo basco moderato, che condivide questa caratteristica – è abituata a guardare il corso degli eventi da una doppia prospettiva, e conosce bene i suoi interlocutori: sapeva come avrebbero reagito.
Questi, a Madrid – in particolare il Partido Popular che ha retto il Paese negli ultimi sei anni, la destra di governo di Mariano Rajoy – si sono rivelati privi di tale capacità. Il PP ha sminuito il malessere dei catalani, lasciandolo ribollire per anni, rifiutandosi di riconoscerne l’ampiezza ma anche la serietà: questo il suo errore di posizione, reso possibile da un sistema mediatico altrettanto sordo. Ma l’errore di reazione di fronte al 1° ottobre è stato allo stesso modo grave. In un climax lungo due settimane si sono visti arresti di funzionari e politici regionali con l’”operazione Anubi” (il dio egizio della morte); il sequestro di urne e di milioni di schede; lo schieramento di decine di migliaia di poliziotti in Catalogna, stanziati in navi ancorate al porto di Barcellona, come in un Paese occupato, e accompagnati da cori anti-catalani alla loro partenza dalle città spagnole; l’impossibile pretesa di bloccare fisicamente il voto da parte della Guardia Civil, che non poteva non provocare episodi di violenza – a cui i cittadini hanno risposto con un’ammirevole resistenza passiva.
Il tentativo di umiliare l’indipendentismo ha avuto un risultato opposto. Ha unito la società catalana in un sentimento tanto di solidarietà quanto di disgusto – perché l’idea di bastonare chi vota non piace a nessuno, perché l’idea di scegliere con il voto la forma di un nuovo rapporto con la Spagna piace a tutti i catalani. E ha provocato reazioni sdegnate nel mondo (e anche in Spagna), ben al di là dei simpatizzanti della secessione. Pur comprendendo il senso di un messaggio di fermezza, ci sono nel Paese nuove esigenze e un diverso grado di pluralismo che Rajoy e i suoi non hanno voluto o saputo vedere.
Gli indipendentisti sembrano decisi a monetizzare il successo regalato da Madrid: puntano alle elezioni anticipate, passando per lo sciopero generale e la proclamazione dell’indipendenza, prima che le divisioni interne ai catalani riemergano. Davvero un paradosso, se si pensa che il referendum ha portato alle urne poco più di 2 milioni di persone, molto meno della metà dei 5,5 milioni di elettori della regione: ancora una volta, una minoranza. Ha votato “Sì” l’89,3%, pari a circa il 38% del totale degli aventi diritto al voto. Non si vede perciò quale legittimità abbia ora la proclamazione dell’indipendenza della Catalogna.
L’ultima volta che ciò avvenne, il palazzo del governo catalano fu preso a cannonate e negli scontri che seguirono i morti furono 46: un antipasto della rivolta dei mineros asturiani e della Guerra Civile che sarebbe scoppiata di lì a poco. Correva l’anno 1934.
La prospettiva del muro contro muro, che ora sembra definire la situazione, è quindi in realtà arbitraria: sia il governo di Madrid che quello di Barcellona l’hanno adottata con la stessa irresponsabilità, convinti di trarne un vantaggio politico. Sta ora alla società spagnola e a quella catalana, e alle forze politiche che rifiutano questo approccio, sciogliere un gomitolo tanto intricato, tenendo conto appunto del pluralismo delle opinioni e dei diversi orientamenti presenti. I quarant’anni di storia democratica della Spagna consentono un cauto ottimismo.