L’accordo stipulato fra Israele, Emirati e Bahrein per giungere a normali rapporti diplomatici suggella un processo da tempo in divenire in materia di relazioni economico-finanziarie, in campo tecnologico e di intelligence. L’accordo è cementato anche dal comune antagonismo verso l’Iran e le sue ambizioni espansioniste.
Il riconoscimento della legittima esistenza di Israele e l’instaurarsi di piene relazioni, anni dopo i trattati di pace conclusi con l’Egitto nel 1979 e la Giordania nel 1994, sono molto significativi. Specialmente se saranno imitati da altri paesi arabi quali l’Oman e l’Arabia Saudita, nella direzione della fine del boicottaggio arabo nei confronti di Israele e della sua piena accettazione in quella regione del mondo a cui appartiene in pieno diritto.
Il successo che il premier Benjamin Netanyahu rivendica sull’accordo “storico di pace” pecca di eccessivo trionfalismo – non vi era stato di guerra fra Israele e i paesi arabi del Golfo e i parallelismi quindi con i trattati di pace con l’Egitto e con la Giordania sono in punto di logica fuorvianti. Ma gli consente qualche vantaggio in un frangente di acute difficoltà interne, con massicce proteste in atto contro di lui e le degenerazioni del sistema politico del paese, nonché l’avvio in dicembre del processo per corruzione e “abuso di fiducia”, in relazione a vicende legate a contratti nel settore delle telecomunicazioni e dei media.
Anche Donald Trump potrà utilizzare a suo vantaggio l’accordo nella campagna elettorale in corso, sebbene il “deal of the century” promosso dalla sua Amministrazione, teso ad isolare i palestinesi e a giungere ad accordi fra Israele e gli stati arabi sui quali i palestinesi stessi non possano esercitare alcun diritto di veto, incontri difficoltà. Da un lato l’Autorità palestinese ne ha rigettato i contenuti, mancando peraltro di avanzare una controproposta per la ripresa di negoziati con Israele interrotti ormai da sei anni; dall’altro in Israele il movimento dei coloni e la destra nazional-religiosa si oppongono alla nascita di uno stato palestinese, ancorché limitato e frammentato.
Il contesto è difficile per i palestinesi, deboli, divisi fra Cisgiordania e Gaza, fra Fatah e Hamas, ostracizzati da una parte rilevante dello stesso mondo arabo. L’atteggiamento degli Emirati e del Bahrein conferma che alcuni stati arabi sono disposti ad instaurare normali e formali rapporti con Israele anche senza alcun progresso nei negoziati verso una pace fondata sulla “soluzione a due stati”.
Una reazione strategicamente più utile da parte dell’Autorità di Ramallah sarebbe quella non di rigettare tout court il piano Trump, ma di proporre una ripresa dei negoziati basati su principi ad esso alternativi: per esempio, l’annessione ad Israele dei soli insediamenti prossimi alla Linea Verde, con uno scambio paritario di territori; la valle del Giordano parte del futuro stato di Palestina; Gerusalemme Est piena capitale di quello stato, e non soltanto quelle aree al di là della barriera di separazione che il piano Trump prefigura come capitale del futuro stato. Inoltre, essa potrebbe esigere che future iniziative diplomatiche di paesi arabi verso Israele siano subordinate a progressi verso la nascita di uno stato palestinese, nonché premere per il riconoscimento dello stato da parte di più paesi del mondo.
Il testo dell’accordo voluto da Trump non menziona l’Iniziativa di pace della Lega araba, né la soluzione a due stati, né le risoluzioni delle Nazioni Unite circa il conflitto. L’accordo in realtà contrasta con la stessa Iniziativa, avviata dall’Arabia Saudita e ratificata dalla Lega araba quasi venti anni fa in virtù della quale normali relazioni di pace fra gli stati arabi e Israele sarebbero stati possibili soltanto dopo un accordo fra Israele e i palestinesi sulla base dei confini di Israele pre-1967, di Gerusalemme riconosciuta come capitale dei due stati, di una soluzione concordata circa la questione dei rifugiati, ecc. In questi ultimi giorni la stessa Arabia Saudita ha ribadito peraltro la sua fedeltà a quel piano ed alle sue condizioni.
Eppure è con i palestinesi, vicini prossimi, che Israele dovrebbe puntare a giungere ad un accordo di pace. Normali rapporti con il mondo arabo non possono sostituire la necessità urgente di una composizione del conflitto basata sulla coesistenza di due stati indipendenti o alternativamente nella forma di uno stato unico, binazionale, con pieni ed eguali diritti civili per i palestinesi ed un assetto politico-istituzionale di tipo confederale. Come ha osservato ironicamente Noa Landau, una brillante giornalista israeliana, Israele non si è trasferita nella regione del Golfo Persico.
Nell’accordo, è con ambiguità e incertezza che si trattano i piani di annessione di parti della Cisgiordania avanzati nei mesi scorsi da Netanyahu. L’accordo implica di fatto uno scambio fra il processo di normalizzazione dei rapporti e la rinuncia da parte di Israele a tali piani: il comunicato ufficiale recita che tali piani sono sospesi “temporaneamente”; Netanyahu, accusato dai coloni e dai partiti di destra di tradimento, afferma che essi sono ancora “sul tavolo”, mentre Trump e i suoi consiglieri proclamano il contrario. Gli stessi Ministri degli Esteri e della Difesa di Israele, esponenti del partito Blu e Bianco, avversano un’annessione unilaterale e appena il 4% per cento degli israeliani la ritiene una priorità al momento secondo i sondaggi.
Un’ annessione unilaterale, ancorché limitata rispetto ai propositi del piano Trump, che propugna di incorporare a Israele il 30% della Cisgiordania, renderebbe nulli gli accordi di Oslo del 1993, in particolare i principi che definiscono il quadro dei negoziati fra le parti per un accordo sullo status definitivo (Gerusalemme, confini, insediamenti, rifugiati, sicurezza). D’altra parte un‘annessione formale non produrrebbe per Israele alcun guadagno rispetto alla situazione di fatto; anzi comporterebbe costi significativi in termini di sicurezza e risorse del bilancio pubblico.
L’opposizione esplicita di una parte del mondo ebraico nella Diaspora, soprattutto progressista, promotrice di un appello mondiale di organizzazioni ebraiche sotto l’egida di J-Link ha concorso in qualche misura alla rinuncia ai piani di annessione.
Compiacersi della sospensione di un’annessione de jure non può peraltro consentire di ignorare che l’occupazione e l’annessione de facto di territori densamente abitati da palestinesi continuino ininterrotte sotto la spinta del movimento dei coloni e della destra nazional-religiosa che ne è la controparte politica. E’ proprio di questi giorni il progetto di nuove strade e infrastrutture per collegare Gerusalemme con insediamenti israeliani anche al di là della barriera di separazione, incorporando in tal modo al controllo di Israele altre parti della Cisgiordania.