Algeria, se l’esercito resta il kingmaker

Gli algerini si riuniscono in ampie manifestazioni pacifiche in tutti i quarantotto vilaya, o distretti, del paese dallo scorso 22 febbraio. Le manifestazioni, spontanee, organizzate sui social media e non facenti capo a partiti politici o leader dichiarati, si sono inizialmente limitate a chiedere che l’anziano presidente della repubblica Abdelaziz Bouteflika, ottantottenne al potere dal 1999 e incapacitato da un infarto nel 2013, non si ripresentasse per un quinto mandato alle prossime elezioni presidenziali (previste per il 28 aprile 2019).

Ma le richieste sono in parte mutate nel corso dei venerdì di protesta, anche come reazione alle risposte del regime. Il sistema di potere che regge il Paese, di cui Bouteflika era ormai solo il simulacro visibile, oltre alla presidenza della repubblica comprende, oltre ai servizi segreti e all’élite economica, l’esercito, il vero kingmaker della politica algerina fin dall’indipendenza ottenuta nel 1962, così come dimostrato nei giorni scorsi con le dichiarazioni del capo dell’esercito Gaïd Salah che chiede il ritiro di Bouteflika dalla scena politica. Richiamandosi all’articolo 102 della costituzione, Salah richiama la necessità di un processo costituzionale da avviare, che prevederebbe il presidente della Camera alta assumere le funzioni di presidente ad interim.

La dichiarazione pubblica ha confermato l volontà dell’esercito di pilotare la transizione e il sospetto che non faranno nessun passo indietro, sacrificando Bouteflika per la salvezza del regime politico in essere. Di fronte alle proteste, il sistema ha accettato l’idea di non ricandidare Bouteflika, ma di prolungarne il quarto mandato per altri due anni, convocando nel frattempo una Conferenza Nazionale che entro la fine del 2019 dovrebbe redigere una nuova Costituzione da sottoporre a referendum popolare.

Bouteflika e Salah insieme in occasione di una delle ultime apparizioni del presidente, nel 2012

 

Il tentativo di appeasement è immediatamente apparso chiaro agli algerini che non hanno mancato di mobilitarsi in risposta alla lettera presidenziale dell’11 marzo, in cui il presidente dichiarava la sospensione delle elezioni previste, l’allungamento del suo mandato di due anni con impegno a non ricandidarsi e la creazione della Conferenza Nazionale. Il presidente continua infatti a non mostrarsi in pubblico dal 2014, nonostante sembra sia tornato in patria lo scorso 10 marzo dopo oltre due settimane di ricovero in un ospedale svizzero: la sua assenza naturalmente alimenta l’alone di opacità sull’effettiva gestione del potere sia da parte dei corpi sopra citati che dai membri della famiglia presidenziale, come il fratello Said, suo consigliere speciale.

Dall’11 marzo, il dissenso espresso dalla società si è allargato al sistema nella sua interezza: non solo un rifiuto netto alla roadmap presidenziale, ma anche una richiesta di cambiamento di regime, di una nuova repubblica, e di un taglio netto con il passato, ivi compreso il ruolo preponderante dei militari nella politica.

Dalla fine della guerra civile degli anni Novanta, il regime ha brandito lo spauracchio della violenza politica da una parte e dell’islam politico dall’altra come minacce per la tenuta del paese e ricetta certa per la discesa nel caos, in nuove spirali di insicurezza e violenza. Le guerre civili libiche e siriana sono state portate ad esempio di ciò che sarebbe potuto succedere in Algeria se lo Stato fosse stato messo in discussione, cercando di far coincidere stabilità e immutabilità del regime con stabilità dello stato.  Ma nelle ultime settimane le manifestazioni inclusive, pacifiche, ordinate, prive di slogan di partito o religiosi, hanno svuotato la retorica securitaria del regime, indebolendone il messaggio, l’azione e la libertà di manovra.

Il popolo algerino non è però nuovo a forme non convenzionali di partecipazione politica. Benché poco pubblicizzate sui media internazionali, forme diverse di protesta hanno scandito la vita politica del paese negli ultimi decenni.

Gli algerini hanno appreso parecchie altre lezioni dalla storia recente. Quando nel gennaio 2011 proteste rivoluzionarie si diffusero nella regione, partendo dalla Tunisia, anche in Algeria si registrarono sollevamenti, inizialmente ispirati da rivendicazioni sociali legate all’aumento del costo di alcuni prodotti alimentari, ma trasformatisi poi nel giro di un mese in rivendicazioni politiche. In quel frangente, i principali partiti di opposizione algerina crearono un fronte comune, ispirati dall’esempio tunisino del raggruppamento del 14 gennaio, ma le fratture apparvero presto: l’esclusione degli islamisti dal fronte indebolì non solo l’immagine di inclusività della protesta, ma anche la fiducia degli algerini nella capacità dei partiti di superare le storiche divisioni per raggiungere un obiettivo di più ampia portata. Il regime poi fu abile nel distogliere l’attenzione dalle tematiche politiche, aumentando sussidi e salari pubblici.

L’Algeria, prima delle rivolte arabe del 2010-2011, si era già mobilitata nel 2008, momento in cui si erano registrati abbassamenti nel prezzo del petrolio e quindi maggiori difficoltà da parte di uno stato ‘rentier’ come quello algerino a mantenere i termini del contratto sociale che ha caratterizzato il patto post-coloniale dagli anni Sessanta in poi. In questo, il boom demografico ha giocato un ruolo centrale. La popolazione è passata dai 9 milioni dell’inizio degli anni Sessanta agli attuali 40 milioni, con due terzi degli abitanti che hanno meno di trent’anni: ciò ha comportato maggiori richieste in termini di creazione di posti di lavoro, diversificazione economica e una maggiore predisposizione al cambiamento politico.

La ‘nuova generazione’ algerina non lo è, infatti, solo in senso demografico: nata nel decennio della violenza e del terrore, gli anni Novanta, ne è un prodotto storico che oggi rifiuta la narrazione basata sulla paura della violenza, non associa la manifestazione del dissenso al rischio di caos imminente e auspica un cambiamento pacifico. E’ una generazione che ha interiorizzato il mito dell’unità nazionale, dell’amore per il paese in senso inclusivo e della possibilità di trasformazioni sociali e politiche attraverso strumenti pacifici. L’inclusività si vede dalla composizione variegata di un movimento che non si limita a un’avanguardia intellettuale composta da studenti, docenti, avvocati, medici, ma è trasversale alla società algerina nel suo complesso.

Un momento delle proteste studentesche in Algeria

 

Anche nel 1988, in occasione di un abbassamento del prezzo del petrolio, e di difficoltà economiche, il paese era stato scosso da imponenti manifestazioni studentesche che avevano ottenuto una modifica della costituzione e lo svolgimento di libere elezioni. L’anno seguente era stato fondato il Fronte di Salvezza Islamica, il FIS, che aveva vinto le municipali del 1990 e il primo turno elettorale nel 1991. Il secondo turno, però non si svolse: un colpo di stato militare sospese le elezioni, le prime libere dall’indipendenza in poi, impose la legge marziale e aprì la strada a un decennio di violenza che ha tolto la vita a quasi duecentomila algerini.

La situazione oggi appare diversa dai casi precedenti di mobilitazioni, anche prolungate. Le proteste popolari vedono una partecipazione che resta elevata e che tocca settori sempre più ampi della società. Le modalità della mobilitazione sono state definite e mantenute fin dall’inizio pacifiche e civili (in arabo “silmiya wa hidariya”)  e così sono rimaste. Il movimento di protesta è così apparso responsabile, e credibile portavoce di istanze condivise: è stato significativo l’uso, nelle manifestazioni, solo di bandiere nazionali e mai partigiane o partitiche.

La protesta ha funzionato nel sospingere e, progressivamente, convincere pezzi del regime ad allontanarsi  dal presidente. Sia alcuni partiti pro-establishment come il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) e il Raggruppamento Nazionale Democratico (RND), sia alcuni settori economici chiave per il paese (in particolare all’interno del Forum des Chefs d’Entreprises), sia all’interno dell’esercito, che è passato dal suggerire possibili interferenze straniere nelle proteste a sostenere che il popolo e l’esercito sono fratelli.

Proprio all’esercito i partiti di opposizione hanno chiesto di non interferire negli sviluppi politici e non reprimere le proteste. Oltre a questo, i partiti di opposizione chiedono che venga rispettata la scadenza naturale del 27 aprile per il termine del mandato presidenziale, e che si proceda poi con una presidenza collegiale e un governo incaricato di gestire gli affari correnti.

Si tratta di domande di natura limitata. Ciò testimonia il ritardo della politica dei partiti rispetto a una società che immagina un’Algeria non solo post-Bouteflika, ma davvero post-coloniale: libera di scegliere autonomamente un governo che riconosca la sovranità del popolo.

Davanti a un movimento che resta pacifico, responsabile, democratico, inclusivo, colpisce il silenzio della comunità internazionale, incerta se abbandonare la propria adesione all’ormai vetusto pragmatismo valoriale, così come definisce la strategia globale della UE il proprio principio ispiratore, e quello della resilienza, anche davanti ai cambiamenti, che suona sempre più come un rifiuto del cambiamento e un’accettazione aprioristica dello status quo.

Neanche il vicino tunisino sembra caldeggiare il momento democratico algerino: le manifestazioni di solidarietà a Tunisi hanno visto poche decine di persone mobilitarsi e il governo preferisce non prendere posizione. Le relazioni bilaterali non hanno fatto che migliorare negli ultimi anni tra i due vicini e Tunisi teme che il suo vicino occidentale possa tramutarsi un altro vettore di instabilità, così come lo è la Libia sul versante orientale. In particolare la cooperazione in materia di sicurezza con il gigante algerino ha consentito di prevenire attentati e rafforzare l’operato delle forze di sicurezza tunisine che devono molto alla precaria stabilità su quel versante per potersi intestare progressi e successi.

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