Di al-Qariatayn colpisce che è ancora tutto lì. Tra i detriti del monastero antico intitolato a Mar Elian (San Giuliano), buttato giù con l’esplosivo, spianato dai bulldozer. Nel bivacco di fornelli a gas, scarponi e rifiuti, sparsi negli edifici intorno: qui giacciono i resti dell’accampamento dell’ISIS: chi ci viveva se ne è andato in una fuga precipitosa. Siamo a metà strada tra Damasco e Palmira, nel Governatorato di Homs, in Siria.
Entrare in un luogo che è stata appena liberata dall’occupazione delle milizie dello Stato Islamico può darci l’idea di cosa significa vivere in una città governata dall’ISIS. La vita è, va detto, molto precaria: lo indicano le barrette per purificare l’acqua – di provenienza saudita – che sono sparse ovunque, insieme con il cibo in scatola, già consumato o accatastato. A Qariatayn manca tutto, a cominciare da acqua corrente ed elettricità. I covi dell’ISIS fanno pensare a quelle tane dei latitanti mafiosi. Perimetro buio di un’esistenza ridotta all’osso.
La stessa quotidianità derelitta tocca alle popolazioni amministrate. Lo confermano i numerosi avvisi che ritroviamo in terra, negli armadi, nei cassetti di scrivanie abbandonate. Uno fra questi recita: “A tutti i fratelli: vi preghiamo di non metterci in difficoltà con nuove richieste di internet. Il traffico è esaurito”. In un altro documento le autorità del Califfato avvertono: “A causa della situazione – economica – non sarà più possibile erogare borse agli studenti”. Anche nello Stato Islamico, dunque, in tempi di crisi arrivano i tagli all’istruzione.
La burocrazia del terrore non è dissimile da quella di uno Stato convenzionale. C’è la motorizzazione e il catasto. Il congedo per malattia e i piani di una battaglia. L’intestazione recita: Daesh – lo Stato Islamico – Governatorato di Damasco, frazione di Qariatayn. Le date degli atti amministrativi si riferiscono al calendario islamico, calcolato dall’hijra, la storica fuga di Maometto dalla Mecca a Medina per sfuggire a un complotto che voleva la sua morte. A Qariatayn correva quindi l’anno 1437, fino alla sua riconquista per mano dell’esercito siriano appoggiato dall’Iran, da Hezbollah e dall’aviazione russa.
Dalla stessa radice di hijra deriva la parola muhajireen, che in arabo vuol dire emigranti. Abdullah Azzam, ideologo del jihadismo contemporaneo, fondatore di Al Qaida e maestro spirituale di Osama bin Laden, considera l’hijra una fuga dalla terra della paura alla terra della salvezza. Ma anche l’atto di lasciarsi tutto dietro alle spalle per andare a combattere il jihad. Come migliaia di “foreign fighters”, combattenti stranieri – muhajireen appunto – venuti anche qui a Qariatayn.
La città era abitata da cristiani fino all’agosto 2015. 200 di loro sono stati fatti prigionieri, tra questi Padre Murad, amico e collaboratore di Paolo Dall’Oglio,il gesuita rapito tre anni fa a Raqqa durante trattative tra fazioni ribelli. Padre Murad è tornato in libertà, insieme con alcune decine di loro. Ma di molti altri non si hanno più notizie. E anche adesso che l’ISIS non c’è più, è impensabile che i civili possano fare ritorno. La città, distesa in un deserto petroso, è un cumulo di macerie. I cristiani in un primo momento avevano pagato all’ISIS la jizya, la tassa imposta ai non musulmani, sperando di salvarsi. Poi sono dovuti fuggire. Molti sono stati uccisi. Come lo zio di una donna che incontro: aveva delle vigne, le coltivavano braccianti musulmani. Ha pagato per questo.
Le città sottratte all’ISIS rimangono città fantasma. Gli abitanti ritornano a bordo degli autobus, ma solo per brevi sopralluoghi di poche ore. Sfollati nella vicina Homs, vengono ad accertarsi che qualcosa sia ancora in piedi, a prendere pentole, suppellettili, tutto ciò che sia utile alla loro vita di senza-casa. Maria ha sottratto ai detriti un piccolo quadro con una Madonna. È di cartone, vede che mi piace e me lo dona. Chi ha perso tutto, anche di quel poco che ha salvato può facilmente disfarsi.
Kobane ed Amerli, Tikrit, Palmira e Hasakeh. Le città in cui sono entrata subito dopo la cacciata dell’ISIS si assomigliano tutte. Perché sono vuote di un vuoto che non è facile colmare. Perché la vita non torna e i resti delle battaglie – le carcasse, persino i cadaveri del nemico – restano ovunque come un ammonimento. Perché la giustizia dei vincitori si accanisce sulla sorte dei vinti. Che sono i collaborazionisti, certo, spesso però non presi singolarmente, ma genericamente identificati con le comunità sunnite. Nel settembre 2014, entrando nella turcomanna Amerli sottratta dalle milizie sciite all’assedio dell’ISIS, sfilai tra due cortine di fumo: erano le case dei sunniti cui era stato dato fuoco. Covi dell’ISIS, mi venne detto.
I regolamenti di conti tra sciiti e sunniti sono solo uno dei tanti “effetti collaterali” di una guerra che ha finito per “svuotare” gran parte della Siria: più della metà dell’intera popolazione non ha più casa, e cerca asilo da qualche parte. Anche la piccola biblioteca di Qariatayn è stata svuotata; gli scaffali allungano al soffitto le loro assi vuote, come braccia imploranti. Davanti all’ingresso, calpestate, cassette da mangianastri per imparare l’inglese. Sul muro, in una scritta spray, il messaggio da parte di chi semina il terrore in Medio Oriente: Siamo venuti come leoni affamati, la carne del nemico è un pasto squisito. Firmato: i leoni del califfato.