“Ai margini del Consiglio europeo”, dove traballa l’equilibrio istituzionale dell’UE

La crisi economico-bancaria, gli ingenti flussi migratori, il terrorismo e, infine, la Brexit. Le sfide poste all’Europa nell’ultimo decennio hanno reso evidente la necessità di capacità di reazione e decisione rapide ed incisive. L’Unione Europea, colta impreparata, ha finito per privilegiare la risposta d’emergenza, e ha potuto farlo servendosi della più giovane delle sue istituzioni, riconosciuta formalmente tale solo con il Trattato di Lisbona.

E’ infatti indubbio che il Consiglio europeo, cioè il consesso dei Capi di Stato e di governo dei paesi UE, sotto la guida della cancelliera tedesca Angela Merkel, abbia preso in mano le redini della situazione. Il ruolo di indirizzo politico assegnatogli nel 2007 dalla lettera del Trattato lo ha formalmente prefigurato come esecutivo (intergovernativo), in concorrenza con la Commissione (sovranazionale). Però, in pochissimo tempo, è stato il Consiglio europeo a diventare il vero centro decisionale della complessa architettura istituzionale dell’Unione. E questo benché, in virtù della stessa Carta di Lisbona, venisse rafforzato tanto il ruolo del Parlamento quanto il legame di fiducia tra questo e la Commissione.

La sede del Consiglio Europeo a Bruxelles

 

Tra centro decisionale e governo ombra

Il predominio della linea intergovernativa ri-emerso con prepotenza negli ultimi anni rappresenta perciò uno squilibrio, capace di mettere a repentaglio quella complessa architettura. Molti casi supportano questa tesi, a cominciare dal più eclatante, ovvero la firma del “Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria”, meglio conosciuto come Fiscal Compact. Benché questo sia stato concluso unicamente tra i paesi della zona euro, le sue conseguenze sull’Unione intera e sulle sue politiche sono sotto gli occhi di tutti. Al punto che oggi lo si vorrebbe incorporare organicamente ne quadro giuridico dell’Unione.

Attenendoci, invece, alla compagine intergovernativa nella sua interezza, è utile evocare la recente decisione circa il ricollocamento, in vista della Brexit, dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA).Lo scorso 12 marzo, il Parlamento, in qualità di colegislatore, ha dato il via libera alla modifica del regolamento che stabilisce Amsterdam come nuova sede dell’EMA, di fatto ratificando la decisione politica presa a novembre. Come è noto, Amsterdam aveva prevalso su Milano, l’altra finalista, grazie ad un sorteggio, dopo che il terzo turno di votazioni effettuate dai rappresentanti degli Stati membri si era concluso con un pareggio. La procedura di selezione era stata convenuta dai Capi di Stato e di governo “ai margini del Consiglio europeo” del giugno 2017, sulla base delle indicazioni contenute in un accordo inter-istituzionale del 2012. Quest’ultimo documento, orientamento comune sottoscritto da Consiglio, Commissione e Parlamento in forma esplicitamente non vincolante, affidava la decisione politica circa la sede delle agenzie ai rappresentanti degli Stati membri, lasciando però impregiudicati i poteri legislativi delle istituzioni.

Al netto di qualche tardiva protesta – sia in merito all’esclusione dalla procedura di selezione che agli importanti dubbi sull’idoneità della sede individuata – il Parlamento ha così di fatto abdicato alle sue prerogative: acconsentendo ad un accordo che lo tagliava politicamente fuori ed avallando giuridicamente la decisione finale. Altrettanto certamente, porre il potere decisionale nelle mani dei governi nazionali è stata una scelta deliberata.

L’esempio più lampante del ruolo – addirittura debordante – del Consiglio europeo è però emerso in occasione del patto sull’immigrazione concluso nel 2016 tra UE e Turchia. Siglato “ai margini del Consiglio europeo” anch’esso, sotto forma di dichiarazione congiunta tra i membri dell’istituzione e la Turchia. Il testo prevede – in sintesi – che l’UE paghi alla Turchia due tranche di 3 miliardi di euro (1 miliardo dalle casse dell’Unione e 2 da quelle degli Stati membri) affinché questa blocchi il transito dei migranti verso le coste del continente. Ad oggi, la Commissione ha emesso una decisione che sblocca la seconda tranche e, addirittura, pare che alcuni Stati chiedano il ribaltamento della proporzione interna del contributo.

E’ del tutto evidente che – a dispetto del nome ufficiale – si tratta di un accordo internazionale, che sancisce impegni politici e di bilancio per l’UE: per queste materie, secondo il Trattato, è necessaria l’approvazione vincolante del Parlamento che però, anche in questo caso, si è limitato a qualche borbottio. Ciò lascia particolarmente perplessi se si pensa che la forzatura attuata dal Consiglio europeo costituisce un precedente giuridico pericoloso per l’autonomia del diritto dell’Unione, affermatasi per via giurisprudenziale dagli anni Sessanta e pilastro dell’integrazione.

Disequilibrio dei poteri

Appare evidente come il Consiglio europeo agisca ormai a pieno titolo come organo di governo politico, mentre la Commissione assume sempre più il ruolo di esecutivo tecnico delle decisioni.

Benché le politiche definite a livello dell’Unione influiscano direttamente ed in maniera pervasiva sulle vite dei cittadini, questi continuano – nella stragrande maggioranza dei casi – a considerare le istituzioni nazionali come l’unica vera espressione della legittimità democratica. Ciò, innestandosi su una lunga crisi dei parlamenti a favore degli esecutivi e sulla giovane storia di un Parlamento europeo ancora incompiuto, contribuisce sensibilmente al rafforzamento del Consiglio europeo.

Se da un lato né la Commissione né il Parlamento sono stati in grado di ereditare i ruoli che, rispettivamente, esecutivo e legislativo occupano nella tradizione del costituzionalismo parlamentare europeo, dall’altro il Consiglio europeo si caratterizza per la mancanza di un qualsivoglia controllo, una totale assenza di accountability.

Tale situazione genera una crisi di legittimazione dell’Unione intera che si riscontra nei processi e negli esisti decisionali. Troppo spesso le decisioni prese riflettono non una qualsivoglia linea politica, ma gli interessi dello Stato o della coalizione di Stati più forte. A riprova di ciò, una recente dichiarazione del neo-ministro delle finanze tedesco, il socialdemocratico Olaf Scholz, in merito alle possibili riforme dell’eurozona – aspetto cruciale per la sopravvivenza dell’Unione: “a German finance minister is a German finance minister, the party affiliation plays no role there”. In misura crescente ed allarmante gli interessi di parte prevalgono sui valori e gli interessi comuni della costituenda policy europea.

Sulla problematica questione dell’architettura istituzionale si innesta quella della retorica pubblica sull’UE che –in buona parte grazie allo “scarica-barile” delle cancellerie nazionali – dipinge l’Unione come la madre tecnocratica e incontrollabile di tutti i mali. L’Unione è diventata facile bersaglio di critiche che l’accusano di affamare i popoli europei, di occuparsi unicamente del mercato, di fare l’interesse dei grandi in una prospettiva di sfrenato liberismo.

Qui risiede un grande equivoco, che ha origine nello sviluppo incrementale e funzionale del processo di integrazione. Tale processo non è infatti neutro, né l’Unione può essere un fine in se stessa: a qualsiasi livello vengano assunte decisioni per una comunità, queste necessariamente variano a seconda delle finalità perseguite. L’Unione è uno strumento: non può occuparsi se non di materie per le quali le è stata conferita competenza da parte degli Stati membri (quindi, ad esempio, il welfare è quasi totalmente escluso), e attua politiche secondo linee convenute a Bruxelles – spesso da quegli stessi agenti che poi in patria dipingono una UE matrigna tiranna.

Poiché il discorso istituzionale risulta ormai indissolubilmente legato alle questioni di merito, sarebbe auspicabile un dibattito aperto sulla natura costituzionale dell’Unione, in modo da rifondare su basi più solide anche il senso di appartenenza dei cittadini alla stessa.

Un problema di democrazia

In questo quadro, l’esecutivo europeo non può continuare ad essere bicefalo e la soluzione proposta da più parti di un unico Presidente alla guida del Consiglio europeo e della Commissione appare valida. Al tempo stesso, l’esecutivo necessita di un controllo che fornisca legittimazione democratica  alle sue scelte, affinché queste vadano in direzione dell’interesse dell’insieme dei cittadini. Ciò può avvenire in modo più naturale continuando il percorso già intrapreso – con il legame di quasi-fiducia tra Parlamento e Commissione – nel solco dell’eredità parlamentare. La Commissione dovrebbe diventare il vero esecutivo dell’Unione a tutti gli effetti con il suo Presidente che sia anche a capo del Consiglio europeo. Quest’ultimo dovrebbe però assumere a questo punto una funzione molto più “defilata” di quanto non faccia ora, ed essere chiamato in causa unicamente quando la questione riguardi specificamente gli Stati membri singoli e non l’interesse dell’Unione nel suo complesso. Il Parlamento dovrebbe invece acquisire tutti i poteri tipici dei parlamenti, incluso quello di iniziativa legislativa (attualmente prerogativa della Commissione). Pena un’istituzione, ed un sistema, azzoppati, tanto nei fatti, quanto nella percezione dei cittadini.

È poi indispensabile che l’UE venga percepita pienamente come un’arena politica, e che, quindi, partiti euro-scettici ed euro-critici che nell’ultimo round di elezioni in giro per l’Europa hanno raggiunto risultati considerevoli, vengano coinvolti nel dibattito. Le recenti spinte sovraniste vengono rafforzate – oltre che dall’età anagrafica dei loro promulgatori, nessuno dei quali ha conosciuto la guerra in Europa – dalla percezione dell’incapacità dell’Unione di dare una risposta concreta alle domande ed ai bisogni dei cittadini. Il disegno istituzionale e il patchwork di deleghe di competenza che caratterizzano l’Unione, come detto, influiscono non poco su tale incapacità ed è quindi indispensabile, accanto alle correzioni istituzionali, un’operazione di disvelamento delle responsabilità e modalità delle “scelte di Bruxelles”.

Sgombrato il campo dagli inganni circa la natura puramente tecnocratica – e in quanto tale inevitabile – delle politiche dell’UE, molto sta alla volontà e capacità di visione dei leader politici del continente. Il rischio di una riproduzione dello schema del dilemma del prigioniero o, ancor più, della disgregazione dell’Unione è quanto mai concreto oggi, di fronte all’ondata di euroscetticismo ed alla formazione di una forte coalizione “euro-minimal” in seno al Consiglio. Al gruppo dei quattro paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) rischia infatti verosimilmente di aggiungersi l’Austria di Sebastian Kurz – che guiderà il prossimo semestre di Presidenza del Consiglio.

Un’Unione che non si faccia molto in fretta sistema politico e che non riesca a mostrare in modo evidente ai suoi cittadini la sua concreta utilità, è necessariamente destinata non ad una battuta d’arresto, ma ad una repentina marcia indietro. La riforma della governance dell’eurozona – oggi sul piatto – e dell’architettura istituzionale dell’UE nel suo complesso sono senza dubbio propedeutiche e indispensabili ad evitare il disgregamento. Ma certamente non bastano.

La proposta dell’individuazione di una ristretta cerchia di beni pubblici europei – si parla ad oggi principalmente di sicurezza e formazione – e il loro esplicito inserimento nel bilancio dell’UE vanno nella direzione giusta, ma il grande nodo da sciogliere sta nella volontà e la capacità di presentare l’Unione come strumento: uno strumento che, attraverso l’esercizio di competenze attribuitele, permetta al vecchio continente di giocare ancora un ruolo sullo scacchiere mondiale. Il resto, la direzione delle scelte assunte a livello dell’Unione, deve risultare quel che è sempre stato, ovvero una scelta politica.

Non è detto che non sia già troppo tardi.

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