Marzo doveva essere un mese particolarmente importante nel calendario della pacificazione dell’Afghanistan. Il giorno 10, secondo quanto stabilito dall’accordo firmato a Doha il 29 febbraio tra Stati Uniti e Talebani “per portare la pace in Afghanistan”,* sarebbe dovuto iniziare il vero e proprio negoziato intra-afgano, tra il governo di Kabul e il governo ombra di mullah Akhundzada, rappresentato sinora dal team negoziale talebano in Qatar capeggiato da mullah Baradar. Ma qualcosa non ha funzionato: e i guai sono iniziati ben prima del 10 marzo. Su più fronti.
Il primo fronte caldo da menzionare è quello interno che riguarda l’esecutivo di Kabul cui spettava presentare, la lista del team negoziale in capo allo stato afgano. Ma l’esecutivo ancora non c’è; per di più, è riuscito a spaccarsi, se così si può dire, ancor prima di nascere. Ancor prima infatti che la maratona negoziale di 18 mesi condotta da americani e Talebani a Doha partorisse il documento definitivo, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, rispettivamente Presidente della Repubblica e capo dell’esecutivo uscenti, si erano già divisi sui risultati delle presidenziali del settembre 2019, resi noti in forma definitiva dalla Commissione elettorale nazionale il 18 febbraio.
I risultati, che hanno confermato Ghani come presidente, sono stati immediatamente respinti dall’eterno secondo Abdullah; né l’intervento americano, né quello di notabili locali sono riusciti a ricomporre una crisi che ancora il 9 marzo li vedeva entrambi prendere possesso della carica di presidente.
Ghani aveva l’avallo – seppur senza fanfare – di personalità politiche nazionali e internazionali. Abdullah Abdullah godeva dell’appoggio di diversi personaggi politici dell’arena afgana. Dopo il fallimento dei tentativi di conciliazione, Ghani stabiliva per decreto l’abolizione della carica di capo dell’esecutivo (una figura istituzionale inventata nel 2014 per risolvere la prima crisi tra i due contendenti che aveva portato alla nascita di un governo bipolare).
Il secondo fronte caldo riguarda i rapporti con i Talebani. Se a Kabul non c’è un esecutivo che rispecchi l’equilibrio delle forze non c’è ovviamente nemmeno una linea politica univoca che rappresenti lo stato afgano. La faccenda si complica sia per le colorazioni etniche (Ghani è pashtun come la stragrande maggioranza dei Talebani) sia per gli equilibri e i rapporti di forza, visto che ad Abdullah fa capo quel che resta della famosa e potente “Alleanza del Nord”, la coalizione di signori della guerra considerata la peggior nemica dei Talebani e la forza che, con l’aiuto esterno, determinò la fine dell’Emirato di Mullah Omar nel dicembre 2001.
A complicare le cose è nata una diatriba immediata sul rilascio di 5mila detenuti talebani rinchiusi nelle carceri della Repubblica cui doveva far seguito il rilascio di circa 1000 prigionieri (soprattutto militari) nella mani della guerriglia. Ghani ha posto il rilascio dei primi detenuti talebani non come premessa ma semmai punto di discussione del futuro negoziato di pace. I Talebani, che in proposito agitano l’accordo di Doha sostenendo che la liberazione di 5000 combattenti è una precondizione e non un punto di discussione, hanno respinto il piano Ghani e, nel frattempo, ricominciato a intensificare le azioni contro l’esercito afgano, attenuatesi per una settimana alla vigilia dell’accordo di Doha del 29 febbraio.
Il terzo fronte caldo riguarda gli Stati Uniti, il loro rapporto coi Talebani e quello con il governo Kabul (come abbiamo detto, diviso in due tronconi). Ma c’è anche un fronte interno al Congresso, a una parte del Pentagono poco convinta dagli accordi di Doha e a un clima di sfiducia che dopo la firma ha contagiato un po’ tutte le parti in causa – con l’esclusione di Zalmay Khalilzad, l’inviato americano artefice degli accordi di Doha la cui maratona diplomatica non si è mai fermata. Prima, durante e dopo l’accordo di febbraio.
Va aggiunta infine la variabile Donald Trump. Il presidente americano, che ha investito sulla riuscita degli accordi in vista della campagna elettorale per la sua rielezione, si è distinto per una posizione ondivaga sin dall’inizio del mandato: favorevole al ritiro nel 2016, era tornato interventista da presidente con la decisione di un aumento degli “stivali sul terreno”, salvo poi caldeggiare il negoziato di Khalilzad.
Si deve a Trump se una prima firma dell’accordo è saltata a settembre (famosa la sua frase: “Il negoziato coi Talebani è morto”), costringendo i negoziatori di Doha a una nuova maratona di oltre cinque mesi. Infine il presidente americano ha probabilmente indispettito i più tiepidi verso l’accordo di Doha, sia a Kabul sia a Washington, con una telefonata a mullah Baradar immediatamente dopo la firma del 29 febbraio. Telefonata a cui è dovuto seguire un altro chiarimento, sempre al telefono, con il presidente afghano Ghani, per chiarire che la liberazione dei Talebani prigionieri non erano sul tavolo delle trattative.
Quanto al fronte interno americano, è sufficiente riportare qualche dichiarazione in merito al ritiro delle truppe (i soldati dispiegati dovrebbero passare da 13mila a 8.600 in 135 giorni), i cui preparativi sarebbero già iniziati : Il generale Kenneth “Frank” McKenzie, comandante dell’United States Central Command (Centcom), ha sottolineato a denti stretti il plauso di Al-Qaida agli accordi di Doha. Proprio, la rete terrorista li ha definiti “una grande vittoria storica” del movimento jihadista: “Nell’accordo di ritiro delle forze occupanti – c’è un’evidente vittoria e una sconfitta umiliante per l’America e i suoi alleati”. Infine il generale notava che il livello di attacchi talebani seguiti alla fine della settimana di tregua di febbraio “non sono coerenti con un’organizzazione che intenda mantenere la sua parola”. Gli faceva eco il segretario alla Difesa Mark Esper: “Possiamo fermare il ritiro in qualsiasi momento e metterlo in pausa”. Una clausola prevista dagli accordi di Doha se i talebani non dovessero rispettare gli impegni.
Molti Repubblicani sono preoccupati dal calendario del ritiro e poco fiduciosi sugli impegni presi dai Talebani e i Democratici hanno chiesto più volte un maggior coinvolgimento del Congresso nelle decisioni della Casa Bianca. Infine molti parlamentari restano sospettosi sui due annessi “segreti” all’accordo di Doha – ammessi dal Segretario di Stato Mike Pompeo – che stabiliscono nel dettaglio le regole sul ritiro delle truppe. Trump però ha sempre respinto tutte le critiche confermando tra l’altro di voler incontrare di persona i Talebani. Le primarie e in seguito il Covid-19, lo hanno poi aiutato a distogliere l’attenzione dalla guerra più lunga in cui ad oggi gli Stati Uniti siano impegnati; comunque, si deve a Trump quantomeno la possibilità di un inizio della sua fine.
Infine, c’è una sorta di peccato originale e al contempo un’ipoteca sul futuro. Purtroppo il dialogo USA-Talebani si è svolto senza padrini né mediatori. E lo stesso sembra dover accadere per il processo di pace intra-afgano – qualora cominci veramente e sempre che compaia una lista di negoziatori. E’ una delle tante nubi sul futuro, una cattiva stella sotto la quale si è cominciato a trattare senza che il negoziato di Doha fosse, in qualche modo, “accompagnato” da terzi e dunque garantito anche sulla sua interpretazione. Una mancanza cui sarebbe bene, per il dialogo intra-afgano, porre rimedio in fretta.
* Come recita il titolo dell’accordo: Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban and the United States of America.