A un anno dal 7 Ottobre, tra israeliani e palestinesi incognite e qualche opportunità

Libanesi, siriani, iraniani. Israeliani. Francesi e americani. Sauditi. Sull’eliminazione di Hassan Nasrallah il 27 settembre, è stata chiesta un’opinione a tutti: tranne che ai palestinesi. Nessuna BBC è andata a Ramallah. O ha telefonato a Gaza. A un anno dal 7 Ottobre, sono di nuovo invisibili. Di nuovo irrilevanti. Via via che diventava chiaro che Netanyahu non avrebbe accettato compromessi, e che non solo non si sarebbe avuta la fine dell’Occupazione, o del blocco di Gaza, ma nemmeno si sarebbe ottenuto uno scambio significativo di prigionieri, i palestinesi si ripetevano che però, nonostante tutto, una cosa era cambiata: con l’attacco di Hamas, erano tornati protagonisti. Avevano recuperato centralità.

Alberi d’ulivo nei dintorni di Ramallah

 

Ora però il bilancio sembra essere davvero quello di un’altra nakbah, una catastrofe. E basta. Se Gaza, semplicemente, non esiste più, la West Bank ormai è la riserva di caccia di coloni fuori controllo, con l’IDF che nella zona è passato dai raid ai bombardamenti: mentre l’economia, intanto, è al tracollo, e si vive di Western Union. Di rimesse della diaspora. Né la ricostruzione è vicina. Le ONG e le agenzie dell’ONU sono sostanzialmente ferme. E non solo perché operare è ancora troppo pericoloso: perché Israele non sta più rilasciando visti. La sua strategia è ovvia: che un po’ alla volta, i palestinesi lascino la Palestina.  Senza troppo rumore.

A un anno dal 7 Ottobre, a recuperare centralità è stato piuttosto Israele. Quale che fosse il vero obiettivo dell’attacco di Hamas, delle due l’una: o è andato oltre quanto pianificato, a causa della vulnerabilità dell’IDF, della frontiera sguarnita, e in più, altrettanto inatteso, del rave nel deserto al confine, prolungato all’ultimo minuto. Oppure no, oppure Yahya Sinwar mirava proprio a questo. Ai mille morti. E alla guerra totale. Ma allora, o, nella prima ipotesi, non è stato capace di fronteggiare l’imprevisto, caratteristica essenziale per un comandante in capo, o, nella seconda ipotesi, era certo dell’intervento arabo. Che invece, è mancato.

 

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La fine di Hassan Nasrallah, e ancora di più, la limitata, e sfibrata, reazione dell’Iran, con i suoi 181 missili, e un’unica vittima, un palestinese, è anche la fine di Yahya Sinwar. A Ramallah adesso ti dicono: Arafat, però, nel 1982 era a Beirut. Kalashnikov in spalla. Non stava nei tunnel. Non stava a Doha. E più che come una crisi, interpretano tutto questo come un’opportunità. Tra i palestinesi, infatti, sono stati molti a festeggiare.

Perché con la neutralizzazione di Hezbollah, si aprono fondamentalmente tre prospettive. Che non si escludono l’un l’altra. La prima opzione è nota: è l’allargamento degli Accordi di Abramo (avviati nel 2020) all’Arabia Saudita. Che dal 7 Ottobre, ha ribadito spesso che la strada, ormai, è tracciata. E non si torna indietro. Il presidente israeliano Herzog, per ricordare il 7 Ottobre, ha scelto appunto di parlare all’emittente di stato saudita, Al-Arabiya. E non è detto che per avere maggiori rapporti con Israele, il Golfo alla fine svenda i palestinesi, come molti accusano: gli Accordi di Abramo potrebbero essere solo questione di affari e potere, e armi, come contestano i più critici, ma un’economia più integrata, con più investimenti comuni, potrebbe anche tradursi in una maggiore leva politica su Tel Aviv. In fondo, l’integrazione in Europa è iniziata così. Con il carbone e l’acciaio.

Anche se in realtà, è altrettanto probabile una seconda opzione, di segno opposto alla prima: e cioè il riaccendersi di tutti quei conflitti che non si sono mai realmente conclusi. Come la Siria. In cui Hezbollah è ancora indispensabile per la tenuta di Damasco. Soprattutto, però, c’è spazio adesso per una terza opzione: c’è spazio per il riavvio della Primavera Araba. Perché quella in corso non è altro che la fine dell’era di Oslo tra israeliani e palestinesi: ma sullo sfondo di una Primavera Araba sospesa, e di un intero Medio Oriente in via di ridefinizione. Molti degli attivisti di allora sono morti, o sono in carcere. O in esilio.

Ma operazioni come quelle del Mossad in questi giorni, operazioni così complesse, e su così larga scala, non sono operazioni di agenti infiltrati, di israeliani mimetizzati in mezzo al nemico: sono operazioni possibili solo con la cooperazione di interni. Di dissidenti. Di libanesi e iraniani. Pronti ormai a tutto. Viene ricordato raramente: ma nel 2019, il Libano e l’Iran erano di nuovo in piazza. E si erano arresi solo al Covid. Solo al mondo in lockdown. Yahya Sinwar ha puntato tutto su regimi agli sgoccioli. E che un anno dopo, sono ancora più agli sgoccioli.

Insieme all’era di Oslo, è al tramonto l’era di regimi che hanno ristretto ogni libertà, travolto ogni opposizione, giustificato ogni miseria e povertà in nome della priorità alla guerra a Israele. E poi, la guerra è arrivata davvero: e non sono intervenuti. Hassan Nasrallah è stato eliminato senza che Hezbollah sparasse davvero un colpo. Non è stato solo eliminato: è stato umiliato. E per i palestinesi, questa ora è l’opportunità di rottamare una leadership che in un anno, non ha trovato neppure un’intesa sul futuro governo di Gaza. Dal 7 Ottobre, Mahmoud Abbas non ha ancora mai parlato.

 

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A perdere, piuttosto, è chi invece sembra vincere: è Israele. Che nell’immediato, certo, avrà i suoi Accordi di Abramo con l’Arabia Saudita. E un Libano diverso. E forse, un Iran diverso. E avrà la West Bank. Sempre più occupata. Fisicamente, oltre che militarmente: occupata dagli insediamenti. Ma le sette vittime dell’attacco che si è avuto a Jaffa durante l’attacco dell’Iran sono l’ennesima prova che con i palestinesi, il problema è sempre lì. Perché non è un problema di persone, di qualche capo da colpire in maniera spettacolare. Nel 1992, dopo l’eliminazione di Abbas al-Musawi, il Segretario Generale di Hezbollah a cui è subentrato Hassan Nasrallah, la stampa israeliana titolava: “Il conflitto con Hezbollah si è chiuso”.

Trentadue anni dopo, ancora una volta, si stanno solo rinnovando i suoi attori.  Vinta la guerra, cosa resta della pace?  E cosa resta di Israele? Dal 7 Ottobre, ogni crimine dell’IDF è stato minimizzato, o negato, o giustificato da larga parte degli israeliani. E ogni obiezione è stata tacciata di antisemitismo. Netanyahu è impopolare: ma non così le sue scelte. Né è in discussione il principio alla base del suo nuovo Medio Oriente: chi attacca Israele, sarà attaccato. Niente è peggio di una sconfitta assoluta. Tranne un’assoluta vittoria.

 

 

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