Politica e contestazione dei vecchi modelli, tra blocchi sociali e territori

Co-autori dell'articolo sono Marco Cremaschi e Silvia Lucciarini

I divari territoriali e le diseguaglianze spaziali sono tornati protagonisti del dibattito globale, tanto da assurgere – nei discorsi e nelle rappresentazioni di politici e media – a fattore strutturante del campo politico. Brexit, l’elezione di Donald Trump, e in qualche modo anche i risultati delle elezioni italiane del 4 Marzo sarebbero stati, secondo un’efficace immagine del geografo economico Andrés Rodríguez-Pose, la “vendetta dei luoghi abbandonati”. Ovvero di quelle popolazioni che, confinate ai margini dei nuovi processi di agglomerazione e specializzazione che anche in Europa hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, avrebbero vendicato la propria condizione di minorità politica, sociale e persino culturale cui le élite delle economie urbane cultural-cognitive le avrebbero costrette dopo la fine delle economie industriali (e, nell’ex Europa dell’est, del socialismo reale).

In effetti, a guardare i tre casi citati, la polemica dei “populisti” contro “le élite delle due coste” (Trump), “i radical-chic del centro” (Matteo Salvini), “i bobo” (Marine Le Pen) nel loro richiamare non solo una collocazione di classe ma anche una più ampia collocazione territoriale e culturale (le grandi metropoli, e talvolta le loro aree centrali) confermerebbero quantomeno la rilevanza di tali divari nel discorso politico. Anche se è ovviamente cosa diversa stabilire il loro effettivo ruolo nel determinare i comportamenti elettorali. E questi casi confermerebbero come, in effetti, l’analisi delle diseguaglianze spaziali dovrebbe progressivamente spostarsi dalla scala urbana a quella territoriale nella consapevolezza di quanto, in una società sempre più interdipendente ed altamente mediatizzata, il dinamismo e l’influenza “percepiti” di un luogo possano fare la marginalità di un altro, soprattutto se collocato a breve distanza.

Il fenomeno Trump e l’America

Come noto, la vittoria di Trump è dipesa, almeno in certa misura, dalla forte oscillazione di una parte della classe media bianca a favore del candidato repubblicano. E, in particolare, della classe media bianca di alcuni “battle-state” chiave quali quelli del Midwest e della cosiddetta Rust Belt (post-)industriale (Ohio, Pennsylvania, Wisconsin, Michigan). Ciò rende di nuovo evidente un divario politico per la verità già emerso fra tali territori e le megalopoli costiere dell’Ovest e dell’Est: sebbene con intensità minore, molti cosiddetti “Reagan Democrats” erano concentrati proprio nella Rust Belt. Un divario per la verità anche economico: molte delle aree metropolitane che, nel contesto della lunga transizione post-industriale dell’economia degli Stati Uniti, meno sono cresciute sia demograficamente sia economicamente sono proprio quelle della Rust Belt, ad esempio Cleveland, Detroit, Milwaukee.

Alla narrazione della vendetta dei territori abbandonati della vecchia America industriale in cerca di riconoscimento sociale, quello assicurato dalla “hard talk” di Trump, e di protezione, quella assicurata dalle guerre commerciali e l’isolazionismo della sua amministrazione, si oppone quella dell’inevitabile, incipiente egemonia democratica. Un’egemonia che secondo un fortunato volume di qualche anno fa, The Emerging Democratic Majority[1], vede la definitiva vittoria della politica e della cultura delle due coste assicurata dall’espansione demografica delle minoranze che in gran parte fanno ancora parte della coalizione democratica (che fu battezza per l’appunto la “coalition of the ascendants”, ovvero quella dei gruppi sociali in ascesa). Secondo questa narrazione, l’elezione di Trump è solo una reazione radicale e temporanea a un destino già scritto.

Tuttavia, tale visione appare smentita da una variabile, quella “territoriale”, decisiva nel voto del novembre 2016. Due tipi di territori hanno infatti determinato la vittoria di Trump: le poche contee rurali nelle quali i repubblicani non erano largamente egemoni e quelle post-industriali dove i democratici invece erano risultati ancora in vantaggio nelle elezioni precedenti. In entrambi i casi l’oscillazione a favore di Donald Trump, rispetto a Barack Obama (che aveva ottenuto risultati ottimi nella Rust Belt), ha avuto dimensioni molto ampie tanto da caratterizzare la sua affermazione nei termini di una “regional working class revolt”, come la definisce Michael McQuarrie.

L’evoluzione elettorale tra le Presidenziali del 2012 e quelle del 2016. Le frecce rosse indicano l’aumento di voti Repubblicani, più intenso nella Rust Belt e in generale nelle contee rurali

 

Secondo questo punto di vista, nel collasso delle istituzioni che per decenni avevano assicurato l’egemonia democratica – i sindacati, prima di tutto – il rilievo che il travaglio della Rust Belt ha avuto nella campagna di Trump ha cambiato in modo fondamentale i termini tradizionali del confronto politico, tanto che Hillary Clinton ha perso moltissimo perfino fra gli afro-americani. Questo ha determinato il collasso dell’egemonia democratica in stati che, come nel caso del Michigan, non votavano per un candidato repubblicano dal 1988.

A perdere quindi sarebbe stato proprio quel “progressismo neo-liberale” che secondo Nancy Fraser avrebbe ha trasformato il Partito Democratico in una coalizione fatta prevalentemente di ceti urbani dell’economia cultural-cognitiva e di minoranze. Una coalizione capace di vincere solo in presenza di una leadership efficace, di un personaggio quasi unico come Obama, o in assenza di un messaggio strategicamente capace di rappresentare la tendenziale opposizione fra i due mondi. Uno, quello delle grandi aree metropolitane dominate dall’economia cultural-cognitiva, dalle strutture sociali fortemente divaricate e dal forte peso delle minoranze, l’altro, quello del resto; Clinton ha vinto, a questo proposito, la gara del Pil incassando il voto delle aree più produttive. La persistenza del contrasto politico fra inner-city e aree suburbane ed extra-urbane – considerato che nella Rust Belt le prime, ancora dominate dalla componente afro-americana, votano ancora largamente per i Democratici – confermerebbe tale teoria.


Il caso francese

Per quanto riguarda la Francia, due tesi si scontrano. La prima è quella di una frattura crescente tra le aree metropolitane che beneficiano del circuito mondiale e i territori in declino della Francia “periferica” che ne sono esclusi. Questa tesi è divenuta rapidamente celebre, sebbene contestata, perché pretende di spiegare il voto politico: i territori centrali, beneficiati, sono “centristi”; la periferia (banlieue, “periurbano”, città medie, campagna) è invece lepenista. Insomma, la globalizzazione porta benefici alle metropoli, gli altri sono i perdenti. Sono teorie e modelli diversi, sostenuti da ricercatori spesso ripresi dai mezzi di comunicazione, che situano la contestazione populista nel profondo: secondo Christophe Guilluy, la Francia periferica è come gli USA di Trump o l’Inghilterra di Brexit. Sarebbe una rivoluzione della geografia elettorale classica: come nota Jacques Lévy, la città vota Emmanuel Macron, più ce se ne allontana più aumenta il consenso per Marine Le Pen

Ma è davvero così? Molti studiosi – e questa è la seconda tesi – contestano l’equazione periferia uguale Le Pen. Frédéric Gilli (su Le Monde) e numerosi altri geografi (su Métropolitiques) hanno dimostrato dati alla mano che Macron ottiene percentuali quasi omogenee dappertutto: 21, 22, 23% tra campagne, piccole città e grandi agglomerazioni.

La “Francia dell’esclusione” secondo il geografo Hervé Le Bras, e il voto a Marine Le Pen al primo turno delle Presidenziali del 2017

 

Resta anche qui una divisione geografica, ma ben più vasta e strutturante, tra chi ha guadagnato e perso della transizione postindustriale: l’Ovest e il Sud attraggono (Tolosa, Montpellier, Bordeaux, Nantes), il Nord e l’Est non ce la fanno (Strasburgo, Lille, Rouen). Con due novità importanti: in questa lettura, possono vincere o perdere – nell’economia della globalizzazione – sia le campagne, che le medie e le grandi città; la differenza la fanno le politiche nazionali di sviluppo urbano. Secondo Pierre Veltz, noto economista ma anche Grand Prix d’Urbanistica, il TGV (linea ad alta velocità) è la metro di Francia: Parigi e le altre metropoli (non solo Parigi, come in precedenza) crescono insieme e sono competitive nel mondo.


Il puzzle italiano

In Italia la situazione non pare di più facile lettura. Il capitalismo regionalizzato italiano, il noto divario tra Nord e Sud e la presenza di medi e grandi centri urbani che combinano vizi come anche virtù – in particolare nell’offerta dei servizi – su tutto il territorio, vanno a costituire una sorta di mosaico. Se si guarda l’immagine da lontano se ne riconoscono i contorni: il Nord rappresentato dal centro-destra (con una forte affermazione della Lega) e il Sud dal Movimento 5 Stelle. Sprazzi di rosso-rosa vedono il centro-sinistra leader in città medie e piccole guidate da candidati che in molti casi avrebbero potuto essere competitivi per caratura e consenso nelle grandi aree urbane.

Se invece si guarda più da vicino, si nota come ciascuna singola tessera racconti una storia molto più complessa. Al Nord la nascita della Lega era stata accompagnata dallo statement di non schieramento, né a destra né a sinistra. Sono state le alleanze successive con i partiti di centro destra a renderla un partito inserito in quell’area politica. I linguaggi – o almeno alcuni – si sono fusi e la costituency si è lentamente allargata: sono cresciuti i livelli di istruzione, c’è stato il consolidamento all’interno della categoria dei pensionati, le aree di consenso si sono allargate: aree del Nord prima legate a Forza Italia si sono lentamente tinte di verde.

Ma la forza iniziale della Lega era quella di essere un movimento di protesta, poi istituzionalizzatosi, che tentava di dare una risposta alternativa e colmare un vuoto, che in altre aree del paese è rimasto forte. Le ultime elezioni politiche hanno mostrato come la vittoria sia stata sancita non dal numero di astensioni al voto, elemento ritenuto chiave in precedenza, quanto dalla capacità da parte del M5S di raccogliere da un lato una domanda di rappresentanza che non aveva avuto risposta e dall’altro di rappresentare un voto di protesta, di rottura rispetto al precedente establishment.

Come alcune recenti indagini hanno mostrato[2], c’è una domanda di rappresentanza che non riesce a trovare risposta in nessuno degli schieramenti politici e che incanala la scelta elettorale dove essa sembra rompere il maggior numero di schemi consolidati.

Il quadro dei movimenti in Italia, sia ormai istituzionalizzato e inserito nello spettro dell’offerta politica, sia (per ora) senza una collocazione, mostra però come il “fantasma del populismo”[3] si stia consolidando in Italia, come in altri paesi europei. Il medesimo risultato tuttavia ha diversi ingredienti. Molti sono di natura territoriale, e mostrano la difficoltà di una sempre più complessa e ambigua stratificazione, attraverso luoghi in difficoltà (le aree interne ad esempio), in riconversione (centri medi che diventano hub di specializzazioni produttive) o in crescita (Milano e i servizi avanzati, sviluppati su reti transnazionali): questi stentano a identificarsi con un’offerta politica che dopo anni di trasformismo e allargamento strumentale del consenso ha perso un collegamento chiaro tra obiettivi, parole chiave e idee di protezione come di sviluppo.

Geografia elettorale italiana. Blu: coalizione centrodestra. Arancione: coalizione centrosinistra. Giallo: M5S

 

Se le costituency pre-crisi avevano ancora una forte componente di classe, dopo dieci anni di progressivo e ineguale impoverimento di larga parte della popolazione si osservano nuove congiunture tra territori prima diversi. Chi li abita condivide condizioni di deprivazione o di difficoltà, o non trova sponde per costruire strade per uno sviluppo economico che possa lasciar intravedere traiettorie di qualità e di ricentraggio delle aree rimaste al di fuori delle reti della globalizzazione.

La richiesta di protezione (a cui risponde la Lega) e di cambiamento (proposta dai 5 Stelle) sono ben situate territorialmente, e in mancanza di forti ideologie rispondono alle diverse domande sociali che rappresentano.


I migliori strumenti di analisi

Non che l’analisi delle diseguaglianze spaziali all’interno delle città di per sé non sia più rilevante. Quanto descritto da Saskia Sassen e della sua teoria delle cosiddette “global city”, ad esempio, è ancora essenziale. Sassen ha teorizzato l’emergere di una nuova struttura sociale polarizzata fra i ceti superiori in posizioni di comando nelle reti dell’economia cognitiva e finanziaria e una nuova under-class precarizzata, a scarsa qualificazione e prevalentemente di origine migratoria. La funzione della “sotto-classe” era quella di offrire servizi a basso costo per lo stile di vita affluente di questi nuovi ceti – da cuochi a camerieri nel settore della ristorazione in forte espansione alle pulizie domestiche, dal baby sitting fino alle attività di delivery di qualsiasi tipo.

In questo contesto, ai quartieri enclave della manodopera migrante inserita in tali circuiti, si giustapponevano da un lato i quartieri in via di rapida gentrificazione abitati dai ceti superiori dell’economia finanziaria e creativa e dall’altro quartieri ghetto, che erano il frutto di forme di discriminazione ed esclusione su base etnica di lungo periodo e di nuove forme di marginalizzazione sociale determinate dalla transizione post-industriale. Come i ghetti afro-americani o le banlieue delle seconde generazioni beur in Francia.

Ovviamente, queste rappresentazioni mostravano alcuni limiti. Se sembravano funzionare benissimo a New York, Londra e Los Angeles, invece nell’Europa continentale – con le sue diversità istituzionali, nei sistemi di stato sociale e nelle politiche abitative – rischiavano di spiegare poco dei cambiamenti della struttura sociale urbana. E soprattutto (legittimamente, occupandosi di diseguaglianze urbane) non si occupavano di ciò che capitava alla struttura sociale dei territori diversi dai nodi principali delle nuove gerarchie urbane, nelle città piccole e medie come nei vasti territori rurali e “r-urbani”.

Da questo punto di vista, nonostante i dati sul divario di crescita del Pil fra città e aree non urbane non restituiscano, quantomeno in Europa e negli USA, un quadro inequivoco, come abbiamo visto la percezione di tale divario si è acutizzata. Una percezione di estraneità, se non alterità, che riguarderebbe una condizione socio-territoriale in senso allargato e che sarebbe il frutto della drammatica sottovalutazione, da parte di economisti e policymaker, di alcune esternalità negative della crescita del ruolo delle grandi città nell’organizzazione sociale ed economica propria all’era globale (ipotesi sempre avanzata da Rodríguez-Pose).

In altre parole, mentre si celebravano i guadagni in termini di efficienza determinati dalla rinnovata mobilità di massa in direzione le città – si pensi alla grande crescita di Londra – si sottovalutavano i costi sociali ed economici che chi non era mobile si ritrovava a sostenere in territori che andavano così periferizzandosi. Anche Brexit è stata letta, tra gli altri dalla recente ricerca europea Re.Cri.Re, come la manifestazione di profondi riassestamenti culturali. Alcuni dei sommovimenti politici di questi anni sarebbero (anche) l’esito di questi processi, ovvero delle esternalità sociali e culturali che i nuovi processi di agglomerazione hanno determinato in determinati tipi di territori.

 


[1] Jon B. Judis e Ruy Teixeira, “The emerging democratic majority”, Simon and Shuster, 2002.

[2] Carrieri Mimmo (eds), in pubblicazione, “Il lavoro che cambia”, Ediesse, Roma 2018.

[3] Pavolini Emmanuele, Il populismo fra offerta politica e radici socio-economiche, Stato e Mercato, 1/2018.

Altri riferimenti

Laurent Davezies –  Le crépuscule de la France d’en haut (entretien), Flammarion, Médiapart, le 11 mai 2017

France stratégie, 2017/2017, Dynamiques et inégalités territoriales, juillet 2016

Pierre Veltz – La Société hyper-industrielle, Seuil, 2017.

Rodríguez-Pose, Andrés –  The revenge of the places that don’t matter (and what to do about it). Cambridge Journal of Regions, Economy and Society, 11 (1). pp. 189-209, 2017. ISSN 1752-1378. DOI: 10.1093/.

Micheal McQuarrie – ”The revolt of the Rust Belt: place and politics in the age of anger”, The British Journal of Sociology, Vol.68, 2017.

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