La nuova Corte Suprema e i movimenti femminili

La recente indicazione di Brett Kavanaugh quale prossimo giudice della Corte Suprema in sostituzione del dimissionario Anthony Kennedy (in attesa della conferma del Senato) comunica la volontà del Presidente Trump di andare allo scontro frontale con l’opposizione democratica e di imprimere una decisa svolta conservatrice alla Corte. E tutto questo accade appena prima dell’importante voto di medio termine di novembre che potrebbe cambiare i rapporti di forza all’interno del Congresso statunitense. La circostanza simboleggia inoltre come il dibattito politico e alcune cruciali battaglie ideologiche dell’immediato futuro si stiano giocando (anche) sul “corpo” delle donne – attraverso la questione dell’aborto. E, per questo, le organizzazioni femminili e alcune parlamentari particolarmente in vista avranno un impatto fondamentale sui prossimi eventi politici.

Kavanaugh ha lavorato come assistente di Kennedy. Ma da giudice d’appello del circuito della capitale Washington ha mostrato di essere molto meno moderato del suo maestro. Trump potrebbe aver visto in lui un possibile alleato in un’eventuale procedura di impeachment, poiché il giudice ha più volte espresso i propri dubbi sul dispositivo costituzionale che consente di processare i Presidenti in carica. L’opposizione progressista teme invece che la sua nomina possa avere effetti decisivi sul cruciale tema dell’aborto. Appena l’ottobre scorso, infatti, Kavanaugh si era opposto alla richiesta di una detenuta straniera 17enne di interrompere una gravidanza, ma era stato messo in minoranza dagli altri giudici della Corte d’appello di Washington, che hanno poi consentito alla ragazza di abortire. Il timore è che in eventuali pareri che avessero a che fare con la storica sentenza Roe vs. Wade del 1973, una Corte Suprema nettamente conservatrice possa rimettere in discussione il diritto all’aborto, considerato quale punto cardine delle conquiste femminili.

L’indicazione di Trump deve però essere ratificata da un voto a maggioranza semplice al Senato – tra fine 2018 e inizio 2019. E con una “camera alta” divisa 50 a 49 per i repubblicani (mancante è il seggio del defunto John McCain), l’attenzione mediatica e politica è rivolta agli swing voters, ai membri del Senato più moderati. In particolare a tre donne: Susan Collins, Lisa Murkowski e Heidi Heitkamp. La prima è Senatrice repubblicana in uno Stato storicamente liberal come il Maine ed è, secondo una ricerca della Georgetown University, il membro del Senato “più bipartisan”. Ha inoltre pubblicamente dichiarato che non voterebbe mai a favore di un candidato ostile al diritto all’aborto. Murkowski è Senatrice dell’Alaska, non dovrà difendere il proprio seggio a novembre (è stata rieletta nel 2016), si è schierata contro la presidenza nei tentativi di smantellamento dell’Obamacare e anch’essa considera il diritto all’aborto una conquista fondamentale per i diritti delle donne. Opposta è invece la situazione della democratica Heidi Heitkamp, impegnata in una difficile campagna elettorale per essere rieletta Senatrice del North Dakota, uno Stato che nel 2016 ha premiato Trump con un vantaggio di oltre 36 punti percentuali su Hillary Clinton. Qui, Heitkamp potrebbe cercare sponde nell’elettorato conservatore e quindi evitare “strappi” sul voto di conferma di Kavanaugh e polemiche sul tema dell’aborto.

Si preannuncia quindi una lunga battaglia politica, fatta di settimane di audizioni di fronte alle commissioni senatoriali e probabilmente anche di tentativi ostruzionistici della minoranza democratica. Per i Democratici l’obiettivo più ambizioso sarebbe quello di posporre il voto di conferma su Kavanaugh al 2019, cioè dopo l’insediamento del “nuovo” Senato che potrebbe avere una maggioranza diversa da quella attuale.

Non bisogna poi dimenticare come la sostituzione di Kennedy, l’indicazione di Kavanaugh e le elezioni di medio termine arrivino dopo gli scandali delle molestie sessuali e dell’efficace mobilitazione del #metoo, che ha visto “risorgere” un movimento femminile che si è manifestato con molta più incisività che in Europa. Ed è proprio in questa situazione così polarizzata e con un dibattito politico ferocemente radicalizzato, che le organizzazioni femminili stanno nuovamente conquistando un ruolo di primo piano nell’opposizione politica e sociale al conservatorismo trumpiano.

Tra i capifila del ritrovato movimento, vi è la storica sigla Emily’s List, associazione nata nel 1985, che nella sua più che trentennale attività ha raccolto oltre mezzo miliardo di dollari, contribuendo all’elezione di oltre mille donne a cariche elettive di rilevanza nazionale, tra cui 23 Senatrici e 12 Governatrici. A differenza di altre organizzazioni, Emily’s List ha sempre adottato un approccio molto pragmatico, talvolta perfino “cinico”. Il nome stesso spiega molto della filosofia del gruppo: “EMILY” è un acronimo che sta per “Early Money Is Like Yeast” (che potrebbe tradursi come “i finanziamenti [elettorali] precoci sono come il lievito”) e rende ben l’idea di un’organizzazione instancabilmente impegnata a raccogliere fondi da destinare a candidate che soddisfino i principi di base riconosciuti dal gruppo stesso. Che sono essenzialmente due: candidarsi per i Democratici ed essere esplicitamente favorevoli al diritto all’aborto. Quando Emily’s List venne fondata, alla Camera dei Rappresentanti sedevano 12 Deputate (oggi sono 84, comunque meno del 20% del totale) e tutte le pochissime donne elette al Senato erano succedute al marito (a oggi vi sono 23 Senatrici, il 23% del totale).

L’elezione di Donald Trump, sommata ai ripetuti casi di molestie sessuali venute alla luce in più ambiti e ai massimi livelli politici, finanziari e a Hollywood, ha spinto Emily’s List a impegnarsi sin dalle prime battute delle elezioni primarie, nel duplice obiettivo di consegnare ai Democratici la maggioranza congressuale e quello di eleggere il più alto numero di donne nella storia del Parlamento statunitense (superando quindi l’attuale record di 105 parlamentari complessive). L’improvviso ritiro di Kennedy ha portato Emily’s List a incrementare i propri sforzi, impegnandosi in un’attività di lobbying mirata anche alle Senatrici repubblicane, certamente più sensibili dei colleghi maschi al tema dell’aborto. Oltre alle già citate Collins e Murkowski, siedono in Senato Joni Ernst, Cindy Hyde-Smith, Deb Fischer e Shelley Moore Capito. Soprattutto quest’ultima, rappresentante della West Virginia, ha più volte dichiarato di essere pro-choice.

L’attivismo di Emily’s List è stato rilevante anche durante le primarie democratiche e ha portato perfino a scontri interni tutti tra donne, dove l’organizzazione tendenzialmente finanziava le candidate più radicali contro Democratiche moderate che, forse, avrebbero avuto più chances di elezione contro gli avversari repubblicani a novembre. E’ quello che, per esempio, è avvenuto in Maryland, dove l’organizzazione ha appoggiato la delegata statale Aruna Miller contro la più quotata pediatra Nadia Hashimi. Nel settimo distretto del Texas, invece, Emily’s List ha finanziato l’avvocato Lizzie Pannill Fletcher e non l’attivista anti-Trump Laura Moser. Inevitabile aggiungere che a novembre saranno Miller e Fletcher a contendere a candidati repubblicani il seggio congressuale.

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