2022: mappa globale del rischio

Editoriale del numero 95 di Aspenia

Proviamo, con questo numero di Aspenia, a discutere una tesi contro-intuitiva: che il rischio americano sia essenzialmente politico e il rischio cinese sia sostanzialmente economico. Una realtà a parti rovesciate rispetto ai decenni passati. La maggioranza degli autori sostiene – con argomenti più o meno condivisibili – che l’America è ormai in guerra con se stessa. La polarizzazione interna, in forte crescita da tempo, sta assumendo caratteristiche patologiche per la salute della democrazia degli Stati Uniti.

La Cina autoritaria di Xi Jinping si trova invece di fronte a rischi economici prevalenti, di cui sono sintomo e simbolo il caso Evergrande e la crisi energetica. Non esiste solo un problema di equilibri fra Stato e mercato, fra ingerenza politica e imprese. La realtà è che la Cina, dopo una fase di ascesa straordinaria dalla fine degli anni Settanta in poi, sembra essere arrivata a nuovo appuntamento con la storia, quella trappola del “reddito medio” da cui dovrà tentare di uscire. Lo sta facendo, scrivono gli autori di Aspenia, nel modo sbagliato.

Il mercato immobiliare cinese, fattore di rischio sistemico

 

Le debolezze intrecciate di un’America alla prova con se stessa e di una Cina alla prova del proprio sviluppo alimentano la pace fredda fra le due sponde del Pacifico e complicano il Rischio 2022. In America, scrive Walter Russell Mead, nazionalismo e “astensionismo” stanno diventando le due pulsioni dominanti di politica estera. In Cina, nazionalismo e auto-isolamento da Covid si combinano. È un scenario, complicato dalla durata della pandemia, che lascia l’Europa di fronte a scelte essenziali ma ancora incompiute: fra nuovo atlantismo e istinti neutrali (la Grande Svizzera); fra espansione fiscale e tentazioni di ritorno a un parente prossimo del Patto di Stabilità; fra accordi fra i grandi paesi (il Trattato bilaterale Italia-Francia, che Roma dovrà cercare di completare con un solido aggancio al nuovo governo tedesco) e resistenze “sovrane” di Polonia e Ungheria. Anche l’Europa 2022 è essenzialmente alla prova con se stessa: dovrà dimostrare che la doppia transizione energetica e digitale funziona effettivamente come leva di ripresa economica; e che un’Unione divisa possa credibilmente aspirare alla propria “autonomia strategica”. Formula quasi magica ma difficile da realizzare senza miracoli, per esempio un vero progresso della difesa europea.

 

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È importante, introducendo la tesi del rischio 2022 a parti rovesciate, avere chiara la prospettiva: identificare negli Stati Uniti un rischio principalmente politico e nella Cina un rischio sostanzialmente economico, non significa condannare i primi a una crisi istituzionale senza ritorno (questa è la tesi, secondo noi alquanto discutibile, di una parte dei commentatori americani) o considerare il regime autoritario cinese un modello politico. Al contrario, il sistema americano – una democrazia liberale di mercato – conserva una notevole capacità di adattamento e innovazione, come spiega bene in questo numero Mario Sechi; mentre quello cinese – un capitalismo di Stato retto da un partito unico – manca di meccanismi regolati per il ricambio della leadership ma anche di meccanismi che permettano di fare funzionare efficacemente i mercati.

Questa differenza strutturale, infatti, influenza naturalmente anche le scelte di politica economica. Va sempre ricordato che il capitalismo di Stato deve fatalmente ricorrere a un alto tasso di pianificazione centralizzata proprio perché non può confidare pienamente nei segnali del mercato. In breve: il rischio 2022 rientra nel confronto, e lo complica, tra sistemi politico-economici alternativi. E il rischio dei rischi è che la situazione attuale – una pace fredda o una seconda guerra fredda modificata, rispetto alla prima, dal tasso di integrazione economica fra le due parti – finisca per sfuggire di mano. Magari dalle parti di Taiwan.

 

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Ma guardiamo ai punti di debolezza e di forza dei singoli giocatori.

Gli Stati Uniti continuano a essere scossi da forti tensioni politiche e sociali: una netta polarizzazione tra i due partiti tradizionali, o meglio fra le due anime del paese descritte da David Mermin, che si combina a una notevole frammentazione interna sia ai democratici che ai repubblicani. Non è una polarizzazione perfetta; ma il risultato è che il sistema politico americano manca ormai di un “centro” gravitazionale. Cosa che complica enormemente la vita di Joe Biden. Il presidente democratico è, dopo un anno alla Casa Bianca, in forte difficoltà ma, avverte Gianni Riotta andando contro corrente, non ha ancora perso la partita.

 

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I democratici – con qualche approssimazione – sono divisi tra progressisti radicali e centristi moderati, cosa che mina la loro coesione in Senato. Come dimostra la discussione sull’ultimo grande piano di spesa di Joe Biden, l’opposizione è venuta in questo caso da esponenti di singoli stati (Texas, Arizona) contrari a una versione radicale del New Green Deal. Biden, per governare, avrebbe bisogno di un partito molto più unito alle sue spalle; e ha successi molto parziali proprio sul suo storico terreno di forza, la capacità di stringere accordi con esponenti repubblicani così da compensare defezioni e oscillazioni in casa democratica.

I repubblicani continuano a vivere lo scontro strisciante tra il “partito di Trump”, che resta apparentemente dominante anche in vista delle elezioni di midterm, e una minoranza, per ora assai debole, che vuole uscire dall’ombra dell’ex presidente e giocarsi con maggiore libertà la partita politica del 2022, per porre le basi delle presidenziali 2024. In un saggio molto letto e commentato per “Washington Post”, Robert Kagan ha sostenuto che la pavidità dei repubblicani moderati prepara di fatto la rielezione di Trump nel 2024, con una svolta illiberale della democrazia americana. All’opposto, John Hulsman sostiene su Aspenia che una eventuale ricandidatura di Trump sarebbe l’unica speranza dei democratici, visto il numero degli elettori indecisi che si sposterebbero sul fronte democratico.

La situazione interna americana è comunque segnata, quasi in modo ossessivo, dagli strascichi del quadriennio di Donald. Secondo alcuni osservatori, fra cui Kagan appunto, questa fase di “guerre culturali” potrebbe sfociare in una crisi istituzionale: la fiducia popolare nel Congresso è sempre molto bassa, la Corte Suprema non è più un organo di equilibrio ma piuttosto un terreno di scontro ideologico, attualmente favorevole ai conservatori. I riflessi politici di queste spaccature sono evidenti, ad esempio nella gestione della pandemia: continuano a manifestarsi differenze di atteggiamento quasi antropologiche. E naturalmente continuano a esistere differenze vecchie e nuove nella visione delle priorità economiche, che configurano due Americhe praticamente incompatibili rispetto al ruolo del governo federale. È il “crepuscolo”, scrive per noi Eric Schnurer, di un’intera fase della democrazia americana, paradossalmente prodotta dalla “iperdemocrazia” collegata ai cambiamenti tecnologici e ai social media.

L’economia offre tuttavia motivi di ottimismo, per i motivi spiegati da Alessandro Fugnoli, che sottolinea sia la potenza del ciclo attuale che le preoccupazioni più a lungo termine per gli effetti collaterali di una espansione da tempi di guerra. È il terreno su cui è possibile coltivare un minimo consenso bipartisan, anche perché i governatori di molti stati guardano con interesse ai fondi in arrivo per le grandi infrastrutture. E si assiste a una trasformazione interna: il Texas sta diventano un hub produttivo di straordinaria vivacità. La ripresa, dopo la fase più acuta della pandemia, appare robusta, con un forte recupero di produttività; e l’America dispone degli strumenti per affrontare senza panico eccessivo anche la sfida posta dalla volatilità dei prezzi energetici. Ma l’economia americana si troverà nel tempo di fronte sfide impegnative, fra cui l’irrigidimento di alcune parti del mercato del lavoro, dove cresce il fenomeno della Great Resignation. Sono le basi per una notevole instabilità negli anni a venire. Joe Biden ha intanto rilanciato i negoziati commerciali con l’Unione Europea e sembra orientato a gestire in modo ponderato la relazione economica con la Cina.

In politica estera e di sicurezza, l’attuale amministrazione non ha stravolto la linea seguita da Trump in Asia e Medio Oriente, ma punta chiaramente su una rinnovata rete di alleanze nel teatro indo-pacifico e ha ricucito le relazioni transatlantiche (nonostante le tensioni nate sulle modalità del ritiro dall’Afghanistan e con la Francia su AUKUS). Prevale, come per Trump, la competizione strategica con la Cina. Che Biden intende impostare anche in chiave di scontro epocale fra regimi autoritari e democrazie. Il summit sulla democrazia, al di là di problemi evidenti che si sono posti, conferma questo approccio: la competizione sistemica fra due modelli alternativi, con un’America che, nonostante i problemi a casa, ambisce a rilanciare la sua leadership internazionale e ad arginare la “regressione democratica” sul piano globale.

Nessun successo straordinario fino a oggi in politica estera, ma un bilancio migliore – guardando ai dati di opinione – di quello domestico. I cittadini americani sono in maggioranza favorevoli a una graduale riduzione degli impegni internazionali più diretti degli Stati Uniti: che ciò avvenga alla Trump o alla Biden, la strada è tracciata per chiunque sieda alla Casa Bianca.

Il presidente americano Joe Biden

 

Il legame tra questioni interne e sistema internazionale resta in ogni caso decisivo: si dimentica troppo spesso che la polarizzazione in corso, incluso il fenomeno Trump, è il sintomo, più che la causa, dei riflessi sociali di una fase specifica della globalizzazione. Ugualmente, la sfida cinese sul piano globale cambia tutti i parametri che hanno finora assicurato agli Stati Uniti lo status indiscusso di superpotenza. In sostanza, molti dei problemi politici di cui oggi soffre l’America sono il riflesso di questioni che hanno una natura transnazionale, mediati (e magari insufficientemente filtrati) dal peculiare assetto istituzionale del paese – che, è inutile ribadirlo, risale nei suoi tratti fondamentali alla fine del XVIII secolo.

 

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Problemi di natura diversa affliggono la Cina – ossia l’altro protagonista di quello strano rapporto “simbiotico” che l’economia globale ha conosciuto dagli anni Novanta. La svolta autoritaria e accentratrice di Xi Jinping ha apparentemente congelato gli assetti politici interni alla Repubblica popolare, preparando il terreno alla successione del 2022: Xi, incoronato nuovo padre della patria dal Plenum del PCC dell’ottobre scorso, si avvia verso un terzo mandato. Cambierà la generazione al potere ma non cambierà il leader supremo.

 

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Per consolidare la propria legittimità, Xi Jinping scommette sempre di più sul nazionalismo assertivo, sostenuto da un grado di rafforzamento militare e nucleare che preoccupa seriamente sia gli Stati Uniti che i loro alleati asiatici. E che dovrebbe preoccupare anche noi europei. La crescita economica, inferiore rispetto agli anni d’oro del grande decollo cinese, non basta più a sostenere il famoso compromesso sociale in base a cui la popolazione cinese otteneva (Deng Xiaoping) la libertà di arricchirsi in cambio della rinuncia alla libertà tout court. La Cina è infatti alle prese con la “trappola del reddito medio” (che molti economisti, anche cinesi, avevano previsto), e deve quindi riuscire a stimolare la domanda interna in modo più solido e rapido. Per ora, nonostante la strategia di “dual circulation”, non sembra in grado di farlo.

Simultaneamente, l’ascesa di giganti digitali che potrebbero minacciare l’autorità indiscussa del Partito, il peso ancora eccessivo dell’export, la bolla immobiliare, il collo di bottiglia energetico, l’esigenza di costruire una qualche struttura di welfare di fronte a disuguaglianze crescenti, vengono affrontate – scrive Daniel Rosen – non con riforme economiche ma aumentando le interferenze politiche su imprese e mercati. Sintomo e simbolo di questa distorsione è la gestione del caso Evergrande, come dimostra Alessia Amighini. In sostanza, non è chiaro come e se il Partito-Stato guidato di Xi sarà in grado di salvaguardare la competitività interna e globale dell’economia cinese, mentre insegue ambizioni geopolitiche in Asia-Pacifico e lungo i vari percorsi (accidentati, in realtà) della Nuova Via della Seta.

Come è del tutto evidente, il “rischio” economico di una Cina che vive una fase di autoisolamento da Covid, è anche un rischio sistemico per la ripresa globale, ed è al tempo stesso un rischio geopolitico asiatico o indo-pacifico: la vastissima regione che comprende Giappone, penisola coreana, Sudest asiatico, Australia e India è strettamente legata alle filiere produttive e logistiche cinesi, ma viene anche destabilizzata dall’assertività nazionalista della Cina. Lo “sfogo” inevitabile di questa tensione fra dipendenza economica e competizione strategica – in un quadro che in realtà interessa il controllo delle vie marittime e commerciali nel Pacifico – sarà il futuro di Taiwan, che ripropone l’analogia storica della “trappola di Tucidide”: il tradizionale garante dell’equilibrio regionale (gli Stati Uniti) e lo sfidante in ascesa (la Cina) si lanciano segnali attraverso esercitazioni militari e programmi di riarmo e ammodernamento tecnologico, ma intanto sembrano essere coscienti del pericolo di incidente ed errori di calcolo.

Come scrivono gli autori di questo numero, su Taiwan si scontrano il patriottismo cinese in chiave politica interna, il tentativo americano di conservare un certo grado di “ambiguità strategica” e l’aumento di tentazioni indipendentiste a Taipei, dopo la stretta cinese su Hong Kong. Per ora prevale lo status quo, in qualche modo ribadito dagli esiti del vertice virtuale fra Biden e Xi; ma appare anche evidente che, con il continuo accumulo di provocazioni e frizioni, il rischio aumenterà.

 

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Negli scenari 2022, l’Europa appare soprattutto come fonte di incertezza, piuttosto che come fonte di rischio: e come sanno i politologi o gli economisti, l’incertezza è difficile da valutare o quantificare. Fra attivazione della nuova coalizione tedesca, attesa delle elezioni francesi, incognita sul futuro assetto dell’Italia, i paesi del nucleo dell’UE cercano di guidare una ripresa economica ancora fragile. E tentano di contenere, senza accentuare le divisioni interne all’UE, le sfide geopolitiche a sud (Grande Medio Oriente) e a est (Russia, spazio ex-sovietico, Balcani).

L’attuale assetto istituzionale “ibrido” dell’Unione Europea non sarebbe mai stato scritto a tavolino da un costituzionalista capace; ma è vero anche che la struttura di potere composita e “multilivello” dell’UE presenta alcuni potenziali vantaggi nel contesto di oggi. In una visione ottimistica, l’UE potrebbe finire per interpretare il vecchio concetto di sovranità in modo adatto a un mondo interconnesso, proprio perché è essa stessa il frutto di una forma di “superinterdipendenza”. La discussione sulla cosiddetta “autonomia strategica” è di fatto un tentativo di ridurre le vulnerabilità esterne dell’UE, rafforzandone l’autonomia (e quindi la sovranità) nei settori decisivi per la protezione degli interessi dei cittadini (dalla salute all’ambiente, dalle frontiere alla privacy) e delle imprese (con la ricerca di un difficile equilibrio tra concorrenza nel mercato unico e competitività sui mercati globali). Ma questo presuppone che le due transizioni economiche funzionino; e che, sulla propria collocazione geopolitica, l’UE cancelli le troppe ambiguità che persistono. Riccardo Perissich spiega perché l’Europa non potrà ancora a lungo oscillare fra una visione neo-gollista e una tentazione neutralista: siamo entrati in una fase in cui geopolitica ed economia non potranno più essere separate, realtà che indica il superamento necessario del “mercantilismo” alla Angela Merkel.

Uno dei grandi punti deboli dell’UE – come noto – è il processo decisionale, troppo complicato e lento per la velocità delle decisioni da prendere e spesso orientato al minimo comune denominatore tra i governi nazionali. Se si vorrà superare l’impasse della politica estera e di sicurezza, andranno trovate formule più flessibili; e adottati strumenti di difesa adeguati. Come nota giustamente Stefano Stefanini, difesa europea e difesa dell’Europa non sono la stessa cosa: la difesa dell’Europa necessita di una capacità di difesa europea che però non basterà senza la NATO e senza che venga ricostruito un rapporto di cooperazione con la Gran Bretagna.

Il dossier della sicurezza e difesa va d’altra parte inserito in un contesto più ampio: non si tratta soltanto di una questione di capacità militari, si tratta di porre le premesse di una capacità di azione internazionale in chiave geoeconomica e dunque tecnologica, energetica e diplomatica. Sono le leve che, assieme agli asset militari, possono realmente creare influenza geopolitica.

 

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Come Stati Uniti e Cina, anche l’Unione Europea riflette, nella sua azione internazionale, i vincoli interni. Qualunque politica estera comincia a casa. E qui la situazione, come si diceva prima, è incerta e dinamica al tempo stesso. La Germania del governo “tricolore”/semaforo di Olaf Scholz deve compiere le scelte delicate descritte da Paolo Valentino e Silvia Merler, anzitutto sul futuro della governance economica dell’eurozona: un possibile vantaggio, rispetto al passato, è che la Germania stessa ha bisogno di forti investimenti interni nella transizione energetica e digitale. La Francia, che Emmanuel Macron spera di guidare ancora dopo il voto del prossimo aprile, ha forse capito di avere bisogno anche di una sponda italiana per co-gestire l’Europa e per affrontare le crisi del Mediterraneo allargato, a cominciare da Libia e Sahel; l’Italia punta a rilanciare il suo ruolo ma dovrà tenere sotto controllo un debito pubblico che rischia di limitare la sua libertà di manovra; i paesi centroeuropei, Polonia in testa, devono decidere se legare davvero il proprio destino a Bruxelles, avendo più chiaro il trade-off fra benefici e vincoli dell’appartenenza all’Unione Europea.

È evidente che senza un solido consenso popolare i governi nazionali non avranno la forza di rendere operativi gli impegni presi (sulla transizione verde e digitale in particolare) e per affrontare le crisi ricorrenti (in campo migratorio, anzitutto) che certamente si ripresenteranno. L’Europa, dice la storia, può in teoria sfruttare le crisi come un’opportunità: in questo caso l’avvio di un cambiamento indispensabile dei propri modelli produttivi e della propria visione geopolitica. Ma per riuscire a fare questo, l’UE dovrà utilizzare al meglio le risorse di cui si è dotata; scegliere una collocazione geopolitica chiara nel sistema euro-atlantico e superare le divisioni persistenti fra governi nazionali. Uno stato di incertezza prolungato non aiuterà; finirà per diventare un rischio. Che gli europei, nel mondo diviso di oggi, non possono permettersi di correre.

 

 


*Questo articolo è stato pubblicato sul numero 95 di Aspenia

 

 

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