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Il fattore Cina negli equilibri globali

Dialogo tra Marta Dassù e Federico Fubini - Editoriale di Aspenia 4-2025

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DASSÙ. Le valutazioni e le proiezioni sull’economia cinese sono state altalenanti negli ultimi anni: abbiamo avuto la tesi del collasso possibile di un sistema fondato sul modello di crescita export-led e trainato da giganteschi investimenti, la bolla immobiliare, lo scontro tra il potere politico onnipresente e i giganti del digitale, la crisi da sovracapacità produttiva, le difficoltà nel far crescere la domanda interna e i consumi. Si è contrapposta una tesi più ottimistica, secondo la quale la Cina ha semplicemente “normalizzato” i suoi tassi di crescita, che secondo le statistiche ufficiali (da prendere comunque con le molle) sarebbero oggi attorno al 5%: una cifra lontana dalla crescita a doppia cifra degli anni Novanta ma pur sempre un tasso elevatissimo, con effetti globali data la dimensione dell’apparato produttivo della Cina e ormai del suo mercato. Sì, sappiamo che persiste un problema immobiliare, che gli investimenti infrastrutturali sono stati in parte un caso di cattiva allocazione delle risorse, che il sistema bancario rimane fragile, che la Repubblica popolare ha un grave problema demografico (accentuato a suo tempo dalle politiche miopi del “figlio unico”); ma nell’insieme il paese ha compiuto un salto qualitativo nei settori-chiave per salire molti gradini delle catene del valore aggiunto ed è a tutti gli effetti un gigante tecnologico, dal digitale alle energie rinnovabili allo spazio.

In sintesi: oggi potremmo forse descrivere la Cina come una grande potenza in fase di normalizzazione e stabilizzazione. Certo, come si diceva le statistiche ufficiali di Pechino vanno sempre utilizzate con prudenza ma la seconda economia al mondo che cresce attorno al 5% è comunque una superpotenza economica – anche se molti analisti stimano che potrebbe trattarsi di meno delle metà di quel tasso di crescita.

 

FUBINI. Io vedo la Cina soprattutto come una grandissima macchina da esportazione, per molti versi simile agli Stati Uniti. Nel senso che anche la Repubblica popolare presenta forti contraddizioni interne – come sistema politico e produttivo – e le proietta verso l’esterno attraverso la cintura di trasmissione del commercio internazionale.

I due paesi lo fanno, naturalmente, in maniera assai diversa. Gli Stati Uniti di oggi esportano protezionismo, che è diventato la bandiera politica della rivolta dei ceti medi e poveri. La Cina esporta mercantilismo, una strada quasi obbligata per un sistema politico che per sua natura tende a sopprimere il dissenso, controllare la società, e dunque comprimere il consumo interno. È un regime che non ha interesse alla formazione di una borghesia dinamica, per le ripercussioni politiche che ciò avrebbe; e dunque tende a deprimere il potere d’acquisto e con esso la capacità di influenza del ceto medio. Ne deriva che la Cina ha bisogno della domanda estera per sostenersi, alimentando un meccanismo che avanza in modo squilibrato ma costante. La politica degli investimenti cinesi nel mondo è un successo, se si guarda alla lista dei prodotti nei quali la Cina presidia il 30%, il 40% e spesso perfino più del 50% dei mercati mondiali. Insomma, dall’acciaio ai prodotti farmaceutici come le tetracicline, con cui si fanno gli antibiotici, alle molte tecnologie all’avanguardia, il modello ha dato frutti importanti. Tutto questo è sostenibile finché la domanda estera resiste.

E c’è comunque un rovescio della medaglia: secondo i dati della Banca dei Regolamenti internazionali, già nel 2022 il debito totale non finanziario della Cina (ossia il debito del settore pubblico sia centrale che provinciale, delle imprese non finanziarie e delle famiglie), ha superato quello degli Stati Uniti e si sta avviando verso il 300% del prodotto interno lordo cinese. Quello degli Stati Uniti è intorno al 250%. Tutto questo dimostra che il meccanismo della crescita cinese non è decisamente un meccanismo equilibrato: è una macchina che continua ad avanzare poggiando su uno squilibrio di fondo.

 

Torniamo allora al quesito iniziale, ossia per quanto sia sostenibile questa dinamica. Tanto più in una fase in cui gli Stati Uniti – che sono la controparte quasi simbiotica della Cina nel sistema globale di scambi – stanno valutando quanto sono ancora disposti a difendere i vecchi assetti globali e a svolgere il ruolo che hanno avuto finora. C’è una curiosa simmetria o, meglio, una complementarietà tra i due giganti economici, per cui davvero si reggono uno sull’altro, compensando i rispettivi squilibri interni. Ma se l’America cambia posizione, per la Cina si apre un problema. In termini molto generali, siamo in una fase di competizione per il predominio tecnologico, con l’America ancora in vantaggio ma non di molto. Mentre entrambi gli attori realizzano – la tregua commerciale appena raggiunta ne è un indice – di non potere puntare verso un vero e proprio “de-coupling” fra le due economie. Sarebbe troppo costoso sia per gli Stati Uniti che per la Cina.

 

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Esatto, entrambe le “macchine di esternalizzazione”, che proiettano verso il resto del mondo le proprie contraddizioni interne, hanno fatto un’enorme scommessa sulle nuove tecnologie per garantire la propria sostenibilità. In parte sono le stesse tecnologie: la dimensione del digitale e dell’intelligenza artificiale le accomuna. Anche se nel caso della Cina è più l’intelligenza artificiale applicata ai processi di fabbrica, all’automazione, alla robotica. C’è poi una forte spinta sulla low altitude economy. E poi la Cina, come sappiamo, ha un vantaggio importante nel settore dell’auto elettrica, delle batterie, delle energie rinnovabili, della manifattura delle “terre rare”.

L’America, d’altra parte, punta moltissimo sul settore cripto, sulle biotech e sulla genetica. Entrambi puntano in modi diversi sui semiconduttori. Ma, fondamentalmente, si può affermare che oggi la Cina fa un’enorme scommessa sul potere della tecnologia nel tentativo di compensare un suo squilibrio strutturale che ha profonde cause politiche.

 

Su questo sfondo, si può dire che tutto sommato la Cina e gli Stati Uniti hanno ottime ragioni per ricercare una tregua, come dimostrano i risultati dell’incontro fra Xi e Trump dello scorso novembre in Corea del Sud. I due giganti non sono destinati a cadere necessariamente nella famigerata trappola di Tucidide: il grado di interdipendenza che esiste, le vulnerabilità rispettive, cambiano i termini della dinamica ai vertici del sistema globale.

A noi è parso illuminante un libro recente di Dan Wang (il titolo è “Breakneck”) sulla Cina come “Stato ingegneristico”: una tesi possibile è che questa sorta di nuova competizione si gioca fra una classe dirigente fatta di ingegneri da parte cinese, e una classe politica largamente fatta di avvocati nel caso americano. In realtà, se guardiamo all’era Trump, la politica degli Stati Uniti è entrata in una fase che potremmo definire “rivoluzionaria”. Restano le distanze e resta il fatto che la Cina, dal 2008 in poi, si è convinta che l’America non sia più un modello da seguire, sia entrata in una fase di declino relativo. Di nuovo, sono due modelli apparentemente incompatibili e che si percepiscono certamente come alternativi, eppure finora si sono quasi sostenuti a vicenda.

È profondamente diverso il rapporto fra la Cina e la Russia, naturalmente. La Cina ha tratto indubbiamente grandi benefici indiretti dalla guerra in Ucraina. Eravamo inclini a pensare, qui ad Aspenia, che Pechino fosse però anche interessata a fissare dei limiti più netti al suo sostegno alla Russia e anche a frenare Mosca, per tutelare la propria posizione nel sistema economico internazionale. In fondo, non credevamo affatto alla cosiddetta “alleanza senza limiti”: in realtà, limiti esistono eccome. Però pensavamo che Pechino avrebbe dato un minore sostegno alla Russia in Ucraina. In realtà, la Cina non ha interesse a fermare una guerra che la avvantaggia e che penalizza l’Europa, mentre distrae l’America dal fronte indopacifico. Perlomeno fino a quando il rischio di sanzioni secondarie sui partner energetici di Mosca non diventerà molto più concreto.

Credo che la Cina per il momento veda solo benefici in questa guerra. Il conflitto in Ucraina ha focalizzato l’attenzione degli Stati Uniti sul teatro europeo negli ultimi quattro anni, ovviamente a discapito dell’Indopacifico. Intanto, la Cina ha avuto accesso a materie prime e risorse a prezzi vantaggiosi e sta sfruttando al meglio il suo potere negoziale con la Russia, come dimostra il recente memorandum d’intesa sul nuovo gasdotto (Power of Siberia 2) che collegherebbe il gas russo direttamente alla Cina attraverso la Mongolia. Questo è uno scenario per il post 2030. Ma intanto si punta ad aumentare – a oltre 100 miliardi di metri cubi all’anno – le esportazioni russe di gas verso la Cina. Si può presumere, anche se i dati non sono trasparenti, che lo stesso avvenga su tutta un’altra serie di materie prime.

Esiste poi un altro capitolo importante: i cinesi stanno imparando molto dall’esperienza della guerra in Ucraina. Ad esempio, lezioni importanti riguardano l’innovazione nei cicli di produzione dei droni (da parte sia russa che ucraina) e su come usarli in combattimento. La Russia da un lato e l’Ucraina dall’altro, sono gli unici due paesi ad avere oggi delle banche dati relative a centinaia di migliaia di combattimenti di droni, dati che possono servire ad addestrare persone e sistemi di IA sulla natura della guerra moderna. L’intelligenza artificiale applicata è un settore decisivo, vista la posizione di forza della Cina quanto ad accesso a banche dati – sia per scopi militari che civili.

Parallelamente, l’Europa viene invece indebolita dal prolungarsi della guerra in Ucraina. La Cina può fra l’altro fare leva su strumenti di coercizione economica nei nostri confronti per mantenere fondamentalmente aperto il mercato europeo. Dunque, è tutto a beneficio della Cina: se Pechino avesse percepito come più solido l’ordine liberale internazionale, probabilmente si sarebbe comportata in modo diverso anche nei confronti della Russia. Ma oggi vede in quel vecchio ordine quasi un morto che cammina e sfrutta lo spazio per continuare a minarlo.

 

Non solo, la sensazione è che i cinesi vedano in Donald Trump non solo un rischio commerciale ma anche una “once in a lifetime opportunity”, nel senso che il presidente degli Stati Uniti potrebbe perfino “sacrificare” Taiwan all’idea di un deal bilaterale con Pechino, come scenario più rilevante per gli Stati Uniti. La stessa cosa che in qualche modo vale per l’Ucraina rispetto al rapporto bilaterale USA-Russia. La crisi dell’ordine liberale internazionale potrebbe lasciare emergere degli ordini regionali: gli Stati Uniti chiederebbero all’Europa di contenere la Russia, o al Giappone di contenere la Cina – a spese loro. E intanto Washington stringerebbe rapporti diretti tra le principali potenze per raggiungere accordi privilegiati. Lasciando alle maggiori potenze una loro sfera di influenza, più o meno estesa.

Quello che chiamavamo “ordine liberale internazionale” è un sistema certamente passato, finito. A ben guardare non è neppure mai stato pienamente in vigore, se con esso intendiamo un sistema internazionale basato su regole condivise o su meccanismi di coordinamento multilaterale e quant’altro. È vero però che oggi emerge un assetto sempre più basato sulla forza, sulla coercizione, sulla politica di potenza, un sistema in base a cui ciascuno degli attori prende ciò che può. Evidentemente, si tratta di un mondo nel quale la Cina si trova abbastanza a proprio agio perché ritiene di potervi giocare un ruolo centrale. Più significativo di quello che potesse giocare in un mondo dove contavano il G7 e il G20, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale.

Ma non abbiamo altro che noi stessi da rimproverare per un esito di questo tipo, perché tutto sommato l’Europa per prima non ha mai voluto accorpare i propri seggi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, o le proprie quote nel Fondo monetario internazionale. L’Occidente non ha mai voluto riconoscere alla Cina un peso maggiore nell’FMI e in altri organismi di governance globale. Dunque, forse sarebbe successo lo stesso quello che sta succedendo, ma non possiamo certo gridare allo scandalo e non possiamo neanche dire che abbiamo fatto tutto quello che potevamo per difendere l’ordine liberale internazionale.

 

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Se guardiamo allora all’Europa, le debolezze sono note ed evidenti. L’esito della guerra in Ucraina sarà decisivo per la sicurezza europea. Cinesi e russi stanno ormai ragionando in termini di sicurezza euro-asiatica, più che di sicurezza europea. E per quanto stiamo compiendo progressi sulla difesa comune, si tratta di progressi troppo lenti rispetto alle sfide che abbiamo di fronte. Come ha osservato giustamente il cancelliere tedesco, non siamo né in pace né in guerra: è una situazione ibrida, che imporrebbe scelte molto più rapide e investimenti più consistenti. Quanto all’economia, per l’Europa resta certamente da gestire il problema della sovracapacità cinese, che di fronte alla parziale chiusura dei mercati americani si sta riversando sull’Europa. Nella reazione europea, manca forse ancora una visione complessiva; un coerente approccio geoeconomico non sembra essere nelle nostre corde, ma possiamo permetterci di farne a meno?

Il primo istinto in Europa è di cercare di proteggersi e di chiudersi rispetto a questa invasione di sovracapacità produttiva cinese che viene scaricata sul mercato europeo. La Cina ha molto meno accesso di prima al mercato americano: -17% di export verso gli Stati Uniti nei primi sei o sette mesi di quest’anno e +7% di export verso l’Unione Europea. Pechino ha attivato due potenti elementi di coercizione economica attraverso i semiconduttori (si veda la vicenda Nextpay) e attraverso le terre rare. In un contesto del genere siamo oggettivamente in una posizione di debolezza.

 

In che modo potremmo reagire? Guardiamo alle due dimensioni, la sicurezza e l’economia che tendono ormai a contagiarsi. Una vittoria di Putin in Ucraina sarebbe un rischio per l’Europa nel suo insieme, anche se stentiamo a rendercene conto; è una ragione essenziale per cui dobbiamo continuare ad aiutare Kyiv, attivando per esempio un meccanismo di prestiti che abbia a garanzia le riserve congelate russe. Un accordo su questo ancora non esiste ma andrebbe trovato. Sarà possibile?

Esiste in effetti una forte divisione nell’UE fra paesi come Francia, Belgio, anche l’Italia, che per ragioni diverse non sono ancora entrati nell’idea che sia ormai necessaria una presa di responsabilità diretta dell’Europa sul futuro della sua sicurezza e sulla guerra in Ucraina; e paesi che hanno una visione realistica della minaccia, non solo i Baltici e la Polonia ma anche la Germania. E guardando appunto all’Europa, non solo all’UE, Norvegia e Gran Bretagna sono anch’esse su questa seconda linea: una valutazione realistica della minaccia ai nostri confini orientali. La definisco “realistica” anche perché è ormai evidente che l’Europa non può più delegare granché a Washington o nascondersi dietro agli Stati Uniti. Con Biden, l’America era ancora coinvolta nella vicenda Ucraina e l’Europa poteva pensarsi in un ruolo di supporto. Con Trump, ci si è nascosti dietro all’idea che la Casa Bianca avrebbe raggiunto un cessate-il-fuoco. L’unica proposta avanzata da parte europea – l’idea di una coalition of the willing – presuppone appunto un’azione successiva alla fine dell’aggressione russa. Cosa non solo illusoria ma che probabilmente ha funzionato per Putin da disincentivo – se l’esito del cessate-il-fuoco fossero forze occidentali schierate in Ucraina, perché allora trattare?

Sono differenze di posizione che si riflettono anche sul problema dell’uso o meno delle riserve congelate russe. E che interessano la questione di come bloccare la flotta di petroliere fantasma che trasportano le riserve energetiche russe attraverso il Baltico: stiamo parlando, è sempre bene ricordarlo, del 60% dell’export di petrolio russo. Bloccarne il transito nello stretto che parte dal Golfo di Finlandia, nella parte orientale del Mar Baltico, o negli stretti controllati dalla Danimarca non sarebbe un’impresa impossibile. Non sto parlando di un’azione militare ma dell’uso dei codici della International Maritime Organization per mettere in discussione il transito di navi che non hanno i requisiti legali e ambientali per navigare. Sarebbe un’azione estremamente efficace per intaccare una parte sostanziale dei proventi che la Russia continua a trarre dal traffico del petrolio; ma è un’azione che non viene fatta anche per il timore di una escalation con Mosca. La Danimarca, paese dove si costruiscono parte delle armi ucraine, risulterebbe particolarmente esposta.

Tutto questo sta facendo emergere le contraddizioni europee: dopo quasi quattro anni di guerra in cui ci siamo nascosti dietro agli americani, dobbiamo decidere quanto esporci direttamente e nel farlo ci dividiamo, messi di fronte a un bivio essenziale. O si accetta una maggiore conflittualità con la Russia come prezzo per salvare l’Ucraina o si lascia che la Russia, non oggi ma nel tempo, prenda progressivamente il controllo del paese, facendone una sorta di nuova Bielorussia. E a quel punto Mosca sarebbe in una posizione molto più forte per riuscire a destabilizzare l’Europa.

 

Uniamo al problema sicurezza i dossier economici: un rischio vero, guardando agli scenari futuri, è che l’Europa finisca per disgregarsi dall’interno. Una vittoria di Putin in Ucraina la destabilizzerebbe nel modo che abbiamo discusso; e proprio quando l’America di Trump e la Cina di Xi esercitano in maniera diversa forme di diplomazia economica coercitiva. Insomma, l’Europa sembra stretta in una sorta di tenaglia a cui non è semplice sottrarsi. E ha tutto da perdere da un aumento delle tensioni commerciali. Esistono molte polemiche sul modo in cui la Commissione europea ha trattato il problema dazi con Trump. La nostra tesi è che in realtà non avesse molte alternative, vista la propria dipendenza in materia di sicurezza e la mancanza di grandi leve negoziali. Insomma, la scelta di un approccio di “damage limitation” era in qualche modo inevitabile. La domanda generale è se in una situazione in cui le dipendenze economiche vengono usate come “armi”, l’Europa possa davvero puntare su una maggiore autonomia strategica. E sei d’accordo con chi sostiene che la Cina ha in realtà già vinto la competizione di questo secolo, l’America combatte con se stessa e l’Europa rischia di restare marginale?

Sicurezza ed economia ormai si contagiano, non ci sono dubbi su questo. Una delle ragioni dell’atteggiamento estremamente timido della Commissione europea nella trattativa sui dazi con Washington è da collegare al timore che gli Stati Uniti abbandonassero l’Europa sull’Ucraina. Abbiamo accettato così un accordo sfavorevole, sicuramente dal punto di vista economico ma tanto di più da quello politico: tutto il mondo ha visto che l’Europa, per la sua dipendenza in materia di sicurezza, può essere piegata ed è debole. Una sconfitta in Ucraina, la principale partita geopolitica dell’intero dopoguerra, ci esporrebbe direttamente alla Russia sul fronte orientale: una Russia con un esercito raddoppiato e con la sua agenda revanscista. Ciò avrebbe sicuramente degli effetti di gelo sugli investimenti in Europa orientale, visto il fattor rischio. I tassi di interesse, in quella fascia di paesi più esposti, aumenterebbero. Al tempo stesso, l’America applica i suoi dazi e la Cina sfrutta il suo monopolio sulla manifattura delle terre rare, e in genere applica forme di coercizione economica nei settori in cui l’Europa è dipendente (batterie, tecnologie per le rinnovabili, packaging dei semiconduttori, ecc).

Esiste la tenaglia di cui parlavate, sì. Ma vorrei chiudere dicendo che la partita non va considerata persa in anticipo. Nel senso che avremmo ampiamente le risorse per rispondere. Se solo esistessero la volontà politica e un consenso sufficiente. Per rispondere alla Russia, prima di tutto. Il regime di Putin è messo veramente male dal punto di vista economico. Anche la Russia, non soltanto l’Ucraina, ha problemi di reclutamento. La scommessa resta quella di riuscire a sostenere l’Ucraina fino al momento in cui la leadership russa dovrà decidere se convenga continuare la guerra con il rischio che le salti in mano il paese.

 

 


Questo testo è l’Editoriale del numero 4-2025 di Aspenia.